Comunque truccarsi
L’ultima traccia di burro usata come antirughe dalle donne prigioniere nei campi di concentramento è un gesto potentissimo. Tendere alla vita sempre e comunque: perché sanno farlo le donne.
La memoria non è neutra. Gli spazi non sono neutri. I ricordi non sono neutri. La storia non è neutra. Ricordare, dal latino recordari e derivazione di cor cordis ‘cuore’: è il cuore, secondo gli “antichi”, la sede della memoria.
Il 27 gennaio del 1945 furono abbattuti i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e il mondo intero “aprì gli occhi” sulle nefandezze perpetrate dal nazismo. Il Giorno della Memoria a questo serve: ricordare e aprire gli occhi. A partire dal “ricordo” che ci arriva e che, no, non è neutro:
Le donne sopravvissute all’Olocausto furono per lo più ignorate non solo dalla società civile, ma anche dalla storiografia ufficiale. Come riferì in un convegno del 1994 la storica Anna Bravo, di 149 opere memorialistiche della deportazione i libri di donne non erano più di 20. Questo significa che, anche la storia delle deportazioni che arriva a noi, è stata per anni una storia sessuata al maschile.
Le donne sopravvissute fecero la scelta di scrivere, di raccontare, solo dopo decenni dal loro ritorno. Il motivo è stato, per tutte, superare il silenzio, manifestando la volontà di riconoscimento del proprio ruolo. Molti di questi documenti videro la luce proprio per bucare l’oblio e il disconoscimento del contributo che le donne diedero a livello politico – sociale durante la seconda guerra mondiale e per riaffermare la presenza femminile all’interno del corso storico.
Essere donne e vivere un campo di concentramento ha una sua specificità e, dall’analisi delle testimonianze e delle memorialistica, questo si evince chiaramente: il genere e la percezione dell’esperienza concentrazionaria vissuta proprio in quanto donne sono elementi che accumunano le diverse memorie che le ex-deportate resero della loro permanenza all’interno del sistema – lager.
La violenza che le donne subirono fu sia simbolica, sia fisica che materiale, e fu determinata dall’essere nemiche del Reich e dall’esserlo perché donne.
Seguendo questo filo, la storica Daniela Padoan nel libro “Come una rana d’inverno” ha chiesto a tre testimoni straordinarie – Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi, internate ad Auschwitz-Birkenau nello stesso periodo ma in età diverse della vita – di ripensare la loro esperienza di persecuzione, prigionia e ritorno a una impossibile normalità declinandola al femminile.
In un fitto intreccio di richiami e rimandi interni, di racconti talvolta mai fatti in pubblico, le tre visioni differenti e complementari diventano una narrazione sola, densissima di significato, che si fa relazione.
Il corpo
Nel caso delle donne il processo di disumanizzazione presentava la specificità di iscriversi direttamente sul corpo: all’ingresso nei campi di concentramento le deportate venivano spogliate, private dei loro effetti personali, depilate e spesso rapate, subivano visite mediche che includevano un’ispezione ginecologica e dovevano procedere alla vestizione con stracci o divise logore. Tutto avveniva di fronte al personale SS, esponendo le prigioniere anche agli sguardi maschili.
Le mestruazioni
Nei primi mesi di permanenza nei campi, le donne dovevano gestire il flusso mestruale con quello che si riusciva a recuperare. Molte fecero la traumatica esperienza dell’amenorrea, ovvero, dell’interruzione delle mestruazioni a causa della denutrizione e del deperimento fisico. Come ha raccontato Liliana Segre, deportata nel lager femminile di Auschwitz-Birkenau all’età di tredici anni:
La spoliazione della femminilità, la rasatura, la perdita delle mestruazioni, sono state un percorso comune a tutte le donne. Sì, ne abbiamo risentito tutte moltissimo. Io soffrivo parecchio per le mestruazioni e ricordo che uno dei primi pensieri arrivando lì dentro era stato: e quando arriveranno le mestruazioni come farò?
Emblematico anche il ricordo di Charlotte Delbo, partigiana francese, deportata, sopravvissuta di Auschwitz, di una discussione avvenuta in una stanza piena di donne ai tempi della prigionia:
È sconvolgente non avere il ciclo… Inizi a sentirti più vecchia. Timidamente, Irene chiese: “E se dopo non tornassero mai più?” Sentendo quelle parole, un’ondata di orrore ci travolse tutte. Le cattoliche si fecero il segno della croce, altre recitarono lo Shemà (una preghiera della liturgia ebraica, ndr). Tutte cercarono di esorcizzare questa maledizione alla quale i tedeschi ci avevano condannate: l’infertilità. Come dormire dopo tutto questo?
Per le donne che hanno invece continuato ad avere le mestruazioni è stato necessario affrontare le atroci condizioni igieniche dei campi. Come racconta Trude Levi, un’infermiera ebrea ungherese di vent’anni, “Non avevamo acqua per lavarci, non avevamo biancheria intima. Non potevamo andare da nessuna parte. Tutto ci rimaneva addosso e per me è stata una delle cose più disumanizzanti che abbia mai vissuto”.
Maternità
Sul tema della maternità nei lager nazisti le disposizioni furono spesso contraddittorie, anche nei confronti della vita e della morte dei bambini. Ad esempio, a Ravensbrueck, campo di concentramento femminile per antonomasia e situato a ottanta chilometri da Berlino, la sorte delle madri e dei neonati cambiò continuamente. All’apertura, quando erano presenti solo donne tedesche “da rieducare”, i neonati venivano sottratti alle madri per essere affidati a “famiglie ariane”. Dal 1942 i regolamenti furono modificati e le prigioniere furono obbligate ad abortire. Nel 1943 venne deciso che la gravidanza poteva essere portata a termine, sebbene si ordinò di sopprimere i neonati immediatamente. Nello stesso anno fu stabilito che i neonati potevano vivere ma senza che venisse fornito alle madri nessun aiuto in vestiti o in cibo. Infine, nel settembre del 1944 si allestì una Kinderzimmer (camera dei bambini). Le prigioniere addette all’accudimento cercarono di provvedere in tutti i modi alla cura dei neonati.
Pratiche di sterilizzazione coatta
Diverse donne subirono esperimenti pseudoscientifici e furono letteralmente utilizzate come cavie umane. Ciò avvenne soprattutto ad Auschwitz nel Blocco 10, dove a molte detenute fu praticata la sterilizzazione forzata. Tutto nei lager era un’estrema forma di tortura, psicologica e fisica: gli esperimenti perpetrati sui corpi ne erano un esempio.
Si conosce l’identità di 86 donne sottoposte ad esperimenti a Ravensbrueck, chiamate nel gergo del campo Lapin, conigliette o “cavie”. Di queste, 63 riuscirono a sopravvivere grazie alla solidarietà delle compagne che le nascosero nel campo, anche se rimasero invalide a vita.
Resistenza, come le donne si opposero alla “destaurazione” nei lager
Il modello di violenza, materiale e simbolica, che i nazisti attuarono contro le donne aveva la peculiarità di iscriversi direttamente sul loro corpo. E fu proprio il corpo e la sua riappropriazione uno degli strumenti che le deportate utilizzarono come forma di resistenza: l’ultima traccia di burro usata come antirughe dalle donne prigioniere nei campi di concentramento è un gesto potentissimo.
A dispetto della sua così tanto decantata fragilità, la struttura del corpo femminile, sembra essere stata invece più tenace e resiliente di quella degli uomini.
Come scrive qui Franco Di Giorgi:
Una tenacia e una resilienza maggiori semplicemente perché la struttura del corpo femminile sembra contenere in sé una sorta di pneuma, di spirito vitale, di forza spirituale, una ruàḥ del tutto assente nel corpo dell’uomo.
Questa forza vitale è qualcosa di spirituale che si oppone e che anzi reagisce, come una resilienza, a ciò che vi si oppone. Non è nulla di psichico o di riconducibile alla psyché, all’anima, giacché il pneuma può farne a meno. Né tanto meno si tratta di qualcosa che si radica nella ragione o, peggio ancora, nell’intelletto. La forza vitale e resiliente che abita come una ruàḥ, come un soffio vitalizzante la struttura del corpo della donna è una forza che si contrappone naturalmente e istintivamente alla destaurazione, ossia allo svuotamento o alla devastazione di quel corpo.
Il termine destaurazione non esiste. Ma se il normale linguaggio non riesce ad esprimere quelle esperienze devastanti, bisogna inventarne di nuove. Le donne si opposero alla destaurazione. Dei loro corpi e delle loro menti. Prestare attenzione alle frivolezze. Cantare e pregare insieme. Stare attaccatissime alla vita.
Liana Millu, autrice de “Il fumo di Birkenau”, raccontò che a volte gli uomini discutevano sul genere di morte che poteva toccargli in sorte e aggiunse:
Mai, dico mai, noi donne avremmo fatto discorsi del genere. Il potente istinto vitale della donna fattrice di vita produceva anticorpi.
Siamo anticorpi potentissimi e, questa forza, è oggi la nostra memoria. Il cuore sa. Il corpo ricorda le sofferenze delle altre.
📰 Rassegnami
Giornata della Memoria, l’Olocausto raccontato dalle donne
Ci sono le conversazioni tra deportate, che parlano “della famiglia, degli amori, del lavoro”. Ci sono le case di tolleranza nei lager, tra macabre violenze e iniezioni per bloccare la fecondità. Ci sono streghe torturatrici che esibiscono i corpi delle vittime come trofei. Si moltiplicano le testimonianze e i romanzi delle donne sull’Olocausto. Storie nella storia della ferita più grande del Novecento, che tentano di far emergere le specificità dei vissuti femminili nell’esperienza dell’internamento e della guerra.
Il centro antiviolenza “Lucha y Siesta” di Roma è stato assolto dall’accusa di occupazione di immobile
Va avanti invece lo scontro tra l’associazione e la Regione Lazio, che lo scorso ottobre aveva annunciato l’intenzione di revocare la convenzione con cui nel 2021 fu assegnata a Lucha y Siesta la gestione degli spazi in via Lucio Sestio 10, per ristrutturare l’immobile e poi indire un bando per assegnarne la gestione. Le attiviste si oppongono allo sgombero dell’immobile, e non hanno ancora lasciato gli spazi.
Gen Z, allarme dipendenze. E le ragazze stanno peggio
Come sta la Generazione Z nel post pandemia? A rispondere è il “Rapporto di Ricerca sulla diffusione dei comportamenti a rischio fra gli studenti delle scuole superiori di secondo grado” pubblicato lo scorso 14 dicembre da Espad – il più grande progetto di ricerca transnazionale sui comportamenti d’uso di alcol, tabacco e sostanze psicotrope degli adolescenti – e coordinato dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche. Ne ho scritto per Alley.
“Donne non si nasce, si diventa”, come Simone De Beauvoir ha cambiato il femminismo
Lo scorso 9 gennaio Simone de Beauvoir avrebbe compiuto 116 anni, ne ho tracciato un profilo per The Wom.
🎯 Nominare è fare esistere
Solo il 16% delle biografie presenti su Wikipedia riguarda le donne: una percentuale impari e incrementata dal lavoro di Wikidonne. In questo spazio ridiamo spazio: una bio per ogni numero. Storie per riscrivere la storia.
Lucille Eichengreen
Lucille Eichengreen, nata Cecelia Landau, è miracolosamente sopravvissuta a dodici anni di ghetti e a tre campi di concentramento (Lódz, Auschwitz, Neuengamme e Bergen-Belsen) fino alla liberazione di Bergen-Belsen.
È emigrata negli Stati Uniti nel 1946, dove si è sposata e ha lavorato come agente delle assicurazioni.
Il suo “Le donne e l’Olocausto” (Marsilio), tradotto da Enrico Buonanno, è uno dei pochi memoriali concentrato esclusivamente sulle prigioniere, sulla straordinaria capacità femminile di formare micro-comunità solidali anche dove manca il minimo barlume di umanità. Di conservare intatta la speranza in mezzo alle fiamme dell’inferno.
Eichengreen racconta le compagne di sventura senza infingimenti: ci sono le nobilità e le miserie, un passato che non si dimentica e un futuro che nonostante tutto non si abbandona mai come orizzonte. “Molti anni dopo, per caso – racconta – incontrai la dottoressa Gisa a New York. Ora esercitava presso il reparto maternità di un ospedale. Non parlammo subito del passato. Ci guardammo l’una con l’altra in silenzio, ripensando entrambe ad Auschwitz, a Sasel e a Bergen-Belsen. Fu lei a rompere il silenzio: ‘Faccio nascere i bambini. Sento che, dopo Auschwitz, Dio mi deve queste vite; dei bambini sani; dei bambini vivi'”.
🌱 La parola
Legge 22 maggio 1978, n. 194
Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza.
Oggi in Italia l’aborto è un diritto. Faticosamente conquistato.
Oggi in Italia la donna può richiedere l'interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari.
Eppure, un convegno organizzato dalla Lega alla Camera dei Deputati, ha messo in discussione il diritto all’aborto sancito dalla legge 194 del 1978. L’evento, tenutosi martedì 23 gennaio a Montecitorio, ha visto la partecipazione di due esponenti del Centro Studi Machiavelli, un think tank di area sovranista vicino al ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara. I relatori hanno espresso posizioni contrarie alla legge 194, definendola “non necessariamente morale” e “una soluzione pratica” che viola i diritti del padre e degenera il ruolo materno. Hanno inoltre negato la legittimità dell’aborto anche nei casi di violenza sessuale, sostenendo che si tratti di un diritto solo “in senso lato”, paragonabile a quello di “uccidere, rubare, ferire”.
Dalla proposta di legge per rendere reato universale la maternità surrogata alla presentazione di un disegno di legge antiabortista da parte del senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia - il cui punto focale era riconoscere la soggettività giuridica agli embrioni dal momento del concepimento - fino alla convenzione per creare la cosiddetta “stanza per l’ascolto”, nell’ospedale Sant’Anna di Torino, il cui scopo è fare pressioni psicologiche sulle donne per convincerle a non abortire: continueremo ad avere i diritti che difenderemo e, quello all’aborto, è in serio pericolo.
🍸 Coraggio liquido
Ottenuto esclusivamente dall’infusione di un mix di due diverse tipologie di rosmarino essicato, senza l’aggiunta di alcun olio essenziale o aromatizzante sintetico: Gin 400 Conigli Volume 2 Rosemery è lavoro di cura lento e appassionato. Le fasi di lavorazione sono complesse: si parte dalla scelta delle piccole foglie aghiformi, poi infuse in due passaggi in alcol di cereali. Dopo alcuni giorni il prodotto ottenuto viene aggiunto al distillato di ginepro. L’attesa, con dolcezza. La cura, con il mix. Unire le frequenze di ingredienti diversi.
❤️ L’amore è una playlist
Prendere quota
💫 Autodiagnosi e cura
Autodiagnosi: la pace di essere intera. Le fragilità degli altri.
Cura: fumare a letto nelle camere degli altri, farsi una maschera, comunque scendere a fare colazione. Candele.
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