L'attitude non si testa, sorry Giorgia
Perché l’introduzione dei test psico-attitudinali per il concorso in magistratura "sblocca un ricordo": il tentativo di escludere le donne da questa carica. Le parole sono importanti e non dimenticano
Ogni notizia che apparentemente non c’entra con il femminismo in realtà c’entra quasi sempre. Ed è per questo che scrivo all’indomani dell’approvazione - da parte del Consiglio dei ministri - di una serie di modifiche al concorso per entrare in magistratura. Tra queste, l’introduzione di test psico-attitudinali per i candidati e le candidate. Una misura che sarà applicata solo a partire dal 2026 e che, in sostanza, vuole che i futuri magistrati e le future magistrate debbano testare le loro “attitudini” con specifici test. Tipo quelli del Cioè. Maggioranza di risposte A): ti ama. Maggioranza di risposte B): è una situationship. Maggioranza di risposte C): Amioo, scappa.
Risultati del test a parte, è esattamente questo termine - ATTITUDINI - a “sbloccarmi un ricordo”. Un ricordo che non fa parte della mia vita tangibile ma che ha segnato anche le mie possibilità oggi. E allora vale la pena fare qualche passo indietro.
Facciamolo, saltiamo a ritroso di qualche anno, andiamo pure indietro nel tempo e collochiamoci precisamente nel 1947: è il 31 gennaio e, mentre la nostra Costituzione prende forma grazie al lavoro dell’Assemblea costituente, si stanno tenendo lunghissimi lavori di limatura di ogni singola parola. Un confronto certosino che darà vita a quelli che saranno i nostri articoli costituzionali. La nostra vita pubblica. Il nostro ordinamento e la nostra bussola. E indovinate? Proprio durante i lavori sulle norme relative alla magistratura, risbuca fuori il termine incriminato che oggi fa sgualcire pure le pieghe dei sempre perfetti tailleur di Lilli Gruber: ATTITUDINE. Giorgia Meloni non s’è inventata niente.
“Attitudine”. A cosa serviva pure nel 1947? A escludere le donne dalla magistratura e sancirlo a livello costituzionale.
Oggi l’articolo 51 della Costituzione - che proclama l’eguaglianza tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive agli uffici pubblici - è stabilita “secondo i requisiti di legge”.
Ma l’inserimento della parola “requisito” al posto di “attitudini” si deve al gioco di squadra fatto dalle 21 madri costituenti (“le deputatasse”) e alla loro tenacia nel far fronte comune rispetto al rischio che la formulazione delle disposizione contenesse un richiamo alle “attitudini” come criterio a cui agganciarci per giustificare eventuali deroghe al principio di eguaglianza.
In sostanza, si voleva escludere le donne dall’accesso alla magistratura perché prive “dell’attitudine necessaria” a ricoprire la carica. I termini entro cui il dibattito si svolse sono noti: sono questi i lavori durante cui l’on. Enrico Molè disse che “è noto, già nel diritto romano, che la donna in determinati periodi della sua vita non ha la piena capacità di lavoro”.
Una convinzione condivisa da molti e che portò ad aprire il cruciale dibattito sulla formulazione dell’articolo 51 Cost. Nel progetto iniziale, infatti, compariva una formula molto problematica in cui si diceva che l’accesso di uomini e donne alle cariche pubbliche sarebbe stato consentito “conformemente alle loro attitudini, secondo le norme stabilite dalla legge”.
Non si può non notare come il ricorso all’espressione “attitudini” avrebbe di fatto lasciato mani libere al legislatore, autorizzato a derogare alla parità dei sessi se avesse reputato una donna “non in possesso dell’attitudine” indicata dal testo costituzionale. Il Parlamento, dunque, avrebbe potuto presumere liberamente che “per determinati posti le donne non hanno attitudine”.
Fu l’on. Maria Federici a opporsi strenuamente all’approvazione di questa formulazione, facendosi portavoce della posizione di altre colleghe (anche di schieramenti politici diversi). Le donne lottarono compatte per la sostituzione del riferimento alle “attitudini” con l’espressione, meno compromettente, “requisiti”.
Come disse Federici durante l’Assemblea costituente del 22 maggio 1947:
Noi donne di tutti i settori dell’Assemblea abbiamo colto un’intenzione particolare, e cioè che si volesse limitare alle donne la possibilità di accedere ai pubblici uffici o alle cariche elettive. Questa intenzione l’abbiamo colta precisamente nelle due frasi contenute nell’articolo proposto dalla Commissione, dove si dice “conformemente alle loro attitudini”.
Poiché le attitudini non si provano se non col lavoro, escludere le donne da determinati lavori significherebbe non provare mai la loro attitudine a compierli.
Se oggi puoi sognare di fare la magistrata, ringrazia una femminista. Se lo sei, pure. L’unica attitudine di cui voglio sentire parlare è quella costituzionale: Sergio Mattarella, ovunque proteggi.
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Gabriella Luccioli
Gabriella Luccioli appartiene a quella magistratura “illuminata” che ha saputo coniugare etica della responsabilità con la tutela e la promozione dei diritti fondamentali delle persone. È stata una delle prime donne a entrare in magistratura nel 1965 e la sua carriera è stata caratterizzata anche dall’esigenza di declinare la giurisdizione riconoscendo la specificità di genere.
Con le sue sentenze (come quella per la corretta quantificazione dell’assegno di divorzio) ha riscritto il diritto di famiglia e ha affrontato temi controversi come il biodiritto. Sua è, ad esempio, la pronuncia del 2007 su Eluana Englaro che ha sancito il diritto all‘autodeterminazione terapeutica per i malati terminali.
Ma Gabriella Luccioli è stata anche una delle prime donne nell’ambiente giudiziario italiano a riflettere sulla condizione femminile e percorrere i primi faticosi passi verso la “parità nella differenza”.
“Il massimo per una donna – scrive nel suo libro Diario di una giudice – non è essere considerata uguale a un uomo. So che la stessa toga non significa dimenticare o negare la specificità del proprio genere di appartenenza”. Un genere che Luccioli ha difeso e rivendicato nonostante gli atteggiamenti a volte ostili e diffidenti di alcuni colleghi uomini.
Da un’intervista per Alley Oop a cura di Silvia Pasqualotto:
Secondo lei oggi le giovani magistrate vivono ancora i pregiudizi che ha incontrato lei?
Le giovani colleghe tendono a negare che esista nei loro confronti alcun tipo di discriminazione. Come se il solo fatto di essere arrivate a indossare la toga le esonerasse dall’assumersi altri oneri nei confronti della categoria. Si tratta però di un’idea che si scontra poi inevitabilmente con la realtà quando decidono di fare un figlio o, per esempio, provare a occupare posizioni dirigenziali.
Esiste quindi ancora un tetto di cristallo anche nella magistratura?
Certo. Nei ruoli direttivi le donne o non ci sono o sono pochissime. Pensi che, a oggi, le donne in magistratura sono il 52,8%, ma se si guarda ai ruoli direttivi la percentuale scende al 26%. Se consideriamo invece le presidenti di corte d’appello sono 8 su 25. Si tratta di numeri inadeguati.
Quali sono le ragioni di questa situazione?
Le ragioni sono tante. Potrei citarle il fatto che i criteri di assegnazione degli incarichi direttivi non premiano le donne. Per questi ruoli sono necessari, infatti, punteggi che solo chi non ha l’onere di occuparsi della cura di una famiglia ha il tempo e il modo di raggiungere. Ma potrei citarle anche il fatto che le colleghe sono meno propense a trasferirsi, e che concepiscono questo lavoro più come un servizio verso la collettività che come una carriera.
🌱 La parola
Condivisione non consensuale di materiale intimo
Si intende la condivisione di immagini o video sessualmente espliciti a terze parti senza il consenso della persona ritratta. La condivisione non consensuale di materiale intimo viene finalmente considerata un reato penalmente perseguibile nel 2019 e una violenza di genere che colpisce le donne nel 90% dei casi.
Perché è sbagliato chiamarlo “revenge porn”? Roberta Cavaglià lo approfondisce qui:
La definizione di revenge porn non mette al centro chi subisce il reato e, come spiegano Federica Chierici, Virginia Dascanio e Elisabetta Stringhi del collettivo transfemminista e queer Ambrosia sulla rivista Jacobin:
Questa espressione ci fa stridere i denti, in quanto incompatibile con una lettura femminista e transfemminista, focalizzandosi unicamente sulle motivazioni di colui che posta le immagini, assumendone lo sguardo
Ed è vero: il termine dimentica completamente il ruolo della vittima, rendendola invisibile, e implica inoltre che questa persona abbia istigato il suo aggressore, dato che, per definizione, con vendetta s’intende il danno materiale o morale, di varia gravità fino allo spargimento di sangue, che viene inflitto privatamente ad altri in soddisfazione di offesa ricevuta, di danno patito o per sfogare vecchi rancori.
Nel caso del revenge porn, il movente non è quasi mai la vendetta ma il potere: ne avevo scritto qui.
🍸 Coraggio liquido
L’amore si definisce in base alle lune. Il Gin Alkkemist viene realizzato da una piccola distilleria spagnola solo 12 volte l’anno durante le notti di luna piena. Per questo è capace di spostare gli equilibri di un distillato mai uguale a sé stesso. I profumi sono quelli della macchia mediterranea. Si chiude con particolare: una nota di uva moscato. Un fatto di streghe.
❤️ L’amore è una playlist
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Autodiagnosi: il cielo rosa che è tornato.
Cura: desiderio da svelare.
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