È una domenica del 2005 e la tv in sala da pranzo trasmette Buona domenica: seduti intorno a un tavolo, tra due polpette e una lasagna, il flusso delle immagini che vanno in sottofondo mi dicono chi devo essere.
Ho 11 anni, sempre quella polpetta in bocca, non so ancora niente. Sono riccia riccissima, piccola, ingenua, dispettosa e mi piace andare a scuola. Sei donne sexy e bellissime, mentre le voci si fanno alte ai bordi della tavoglia - “è prontooooooo” - si sfidano cavalcando una tavola da surf in diretta nazionale. I corpi sono sinuosi, i capelli lunghi, le gambe lisce: si muovono dissimulando ingenuità, sanno di essere guardate e come devono essere guardate.
Le sto guardando anche io, non capisco, ma sono comunque ammaliata: è questa la seduzione. È così che devo essere. Fanatica e ingenua. Bellissima e morbida. Surfare lenta. Antilope delicata. Sono femmina, sono bambina. È così che mi viene insegnato ad essere.


Ecco: se dovessi commentare la morte di Silvio Berlusconi che ha segnato l’ultima settimana comincerei da qui. Dagli spazi di casa mia che, pur con i suoi riferimenti valoriali e politici ben precisi, hanno vissuto nel mondo. E il mondo è stato questo.
I necrologi, invece, in questi giorni non li ho scritti io e né tante altre colleghe. A fare le veci - pure della morte - sono stati gli uomini. Bianchi, etero, cis, privilegiati. Esattamente le figure in serie prodotte da quel modello di mascolinità che lo stesso Berlusconi veicolava per il semplice fatto di esistere: non dover chiedere mai, ricalcare l’eccesso, fare appello alle esigenze e ai bisogni più bassi per rassicurare, vincere e convincere nel segno di un’unica grande necessità. Non sentirci soli nelle nostre nefandezze.
Non ho vissuto un’epoca politica senza questo immaginario maschile. E non ho attinto a un riferimento mainstream di “femminilità” che non fosse quello suggerito dal surf su Canale 5: muoviti sinuosa, non guardare in camera. Devi essere guardata.
La significazione è un processo delicato, la relazione tra significato (il contenuto) e il significante (la forma) non è immediato. Ma afferisce a una serie di codici e riferimenti culturali. Li spiega bene Lorella Zanardo, nel 2009, con il documentario Il corpo delle donne che, come scrive lei stessa, “è stato il primo centrato sulla critica allo sfruttamento delle immagini delle donne a fini commerciali, ideologici e politici”.
Quel surf giocava su più significati ed è questa ambiguità che ha insegnato alle bambine che, con una polpetta in bocca al pranzo della domenica, volevano solo essere bambine.
Vergini, olgettine, giovani ospiti o escort, sono state definite in molti modi le donne avvicinate dall’ex premier. Mentre nello sfondo emergeva una maschilità triste e predatoria. Come ripercorre la giornalista Alessandra Pigliaru sul Manifesto:
È il 27 aprile del 2009 quando Silvio Berlusconi si reca a Casoria per la festa di compleanno di Noemi Letizia che all’epoca compiva 18 anni e che, come ricostruito in seguito, aveva già incontrato l’allora premier. Comincia da qui lo sdoganamento della retorica del papi, non solo perché la ragazza lo chiamava in questo modo ma perché è rimasta una delle tante espressioni che ha impresso un segno preciso nella opinione pubblica, oscillante tra il disgusto e la morbosità, a proposito della collocazione di Berlusconi che non è mai stata solo di condotta privata”.
Nell’età dorata del berlusconismo, in cui i corpi delle donne - avvenenti e bellissimi - diventano il trofeo e l’estensione di quello degli uomini, il femminismo si fa pensiero e azione: è il 13 febbraio del 2011 quando una manifestazione enorme, di uomini e donne, affolla piazza del Popolo a Roma rispondendo a un appello di Se non ora quando in cui viene palesata l’indignazione collettiva “per rispetto e responsabilità verso noi stesse, verso le nostre figlie, verso le ragazze e i ragazzi di oggi” (Vittoria Franco, ex presidente della commissione Cultura in Senato e già senatrice per tre legislature, me ne aveva parlato qui).
Come spiega Pigliaru,
In quel momento l’elaborazione femminista mostra una discussione pubblica di notevole interesse. Proprio a partire dalle pagine di questo giornale e grazie in particolare alle analisi di Ida Dominjanni che, ancora prima di pubblicare il suo volume “Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi” (Ediesse, 2014), aveva sollecitato sul manifesto un’interlocuzione quasi quotidiana nei tre anni precedenti.
Nel documento “Sesso e politica nel post-patriarcato”, scritto da Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi e Grazia Zuffa, e diffuso il 26 settembre 2009, si convoca un incontro nazionale (il 10 ottobre dello stesso anno alla Casa internazionale delle donne) puntando sul nodo principale: “Lo scambio tra sesso, potere e denaro, nel caso-Berlusconi, parla del degrado della cosa pubblica. Dell’uso privato delle istituzioni e del potere. Dell’asservimento dell’informazione - non tutta, ma la maggior parte -, con conseguente aggressione ai pochi spazi di libertà e di critica”.
Eppure, si legge ancora, “resta oscurato, nella rappresentazione che ne è stata data, quello che è il cuore della vicenda: la sessualità maschile e il rapporto con le donne di un uomo di potere. Ci troviamo di fronte a una sessualità e a un potere maschili che si esercitano su donne ridotte a corpi rifatti, per essere oggetti compiacenti di consumo”.
“Dove sono le femministe?” tuonano i maschi di cui si sopra. Beh, ci sono sempre state.
Dunque no, non starò zitta per rispetto: è il momento di deporre il surf e rialzare il sipario. Essere guardate portando in scena chi siamo. Per questo, in questa newsletter, troverete un approfondimento dedicato a EraCruna: una compagnia teatrale di giovani donne under 35, a teatro con la storia di Rosa Balistreri. Dalle storie si parte e si riparte. Dalla rappresentazioni. Dagli sguardi altri. Oggi lo fanno loro che probabilmente, come me, in quelle domeniche del 2005 volevano solo essere bambine.
📰 Rassegnami
Parlare male dei morti: l’eredità difficile (e indicibile) di Silvio Berlusconi
Silvio Berlusconi è morto la mattina del 12 giugno 2023, e da quel momento è partito sui media italiani una sorta di processo di beatificazione che va ben oltre il rendere giustizia all’importanza dell’uomo politico e dell’imprenditore.
Rimedi: ho intervistato Mona Eltahawy. I sette “peccati” necessari contro la piovra del patriarcato.
In un mondo ancora ostile alle donne c’entrano i corpi. La rabbia. Le oppressioni che attraversano le loro esistenze e i “peccati” bollati come tali da un patriarcato che chiede di accettare, e non demolire, i suoi dettami. Se il sistema patriarcale è complesso, pervasivo e internazionale, il femminismo può essere universale. È questo il percorso che Mona Eltahawy traccia nel suo ultimo libro.
Cosa ci dice l’ultimo Digital News Report
Le persone che scelgono di non informarsi - in tutto o in parte - sono soprattutto donne (39% contro 33%). Ne parla Valerio Bassan nella sua newsletter Ellissi.
Il PNRR ignora la parità di genere e rischia di aumentare le disuguaglianze esistenti
È la denuncia dell’associazione Period Think Tank, che promuove l’equità di genere attraverso un approccio femminista ai dati, che ha presentato un’analisi territoriale e per missione per valutare l’impatto dei fondi PNRR sull’occupazione di donne e giovani.
Com’è il futuro visto dai giovani?
Più di 5.000 ragazzi hanno risposto all’indagine di Fondazione Conad ETS su lotta alla mafia, climate change, violenza di genere, educazione alimentare. Riguardo alla violenza di genere, spiega Franco Barbano, presidente di Unisona, “i ragazzi sono consapevoli che alla base ci siano stereotipi di genere, (66%) ma le percentuali sono differenti tra ragazzi e ragazze. Sulla colpevolizzazione delle donne, per esempio, 1 ragazzo su 6 crede che la violenza scatti per colpa degli atteggiamenti provocatori delle partner”.
🎯 Nominare è fare esistere
Solo il 16% delle biografie presenti su Wikipedia riguarda le donne: una percentuale impari e incrementata dal lavoro di Wikidonne. In questo spazio ridiamo spazio: una bio per ogni numero. Storie per riscrivere la storia.
EraCruna
EraCruna è una compagnia di giovani donne under 35 - Federica Prencipe, Lucrezia Lupo Guaita, Rosy Lo Calio, Diandra Selvaggio - diplomate presso l’Accademia Teatrale di Roma Sofia Amendolea, che cura a trecentosessanta gradi la ricerca e la produzione di spettacoli teatrali, lungometraggi, cortometraggi e performance artistiche di ampio genere. Il loro spettacolo La Malarazza - insieme a Marco Gabrielli, Marco Antonio Fiore e Gabriele Namio - porta in scena la storia di Rosa Balistreri e lo fa con grande talento e audace delicatezza.
Con quale obiettivo nasce EraCruna?
Portiamo avanti l’intenzione di essere un polo attivo e reattivo per tutti gli/le artist* e non solo, oltre all’impegno professionale nell’essere una fonte di cambiamento per questo settore, rispettando il lavoro di tutt* e costruendo una relazione attiva con il nostro pubblico, con il quale affrontare i conflitti della vita come fonte di miglioramento e non come motivo di resa.
EraCruna è una parola composta che racchiude due concetti inconsueti, il significato della pietra Eraclea e la cruna di un ago. La pietra Eraclea l’abbiamo trovata tra degli scritti di Socrate, laddove il filosofo affermava che fossero le Muse a far parlare i poeti, imprimendoli di una forza tale che permeava di sè tutti gli/le artist*, concatenandoli insieme in un’unica grande catena. Una forza ispiratrice che agisce come un magnete, che prende il nome di “pietra Eraclea”. Attraversato/a da questa forza, ogni artista diventa un anello reattivo, che viene attratto e si lascia attrarre, creando un flusso di scambio e connessioni che nascono dall’animo umano e si esprimono attraverso l’arte.
A questo concetto così astratto e filosofeggiante, però, mancava un simbolo più concreto e quotidiano. Così il nostro anello si è trasformato in una cruna, uno spazio piccolissimo in cui si addentra il filo di un’arte viva, pronto a cucire storie sempre nuove. EraCruna, una parola composta, che riunisce psiche, anima e corpo, che concatena l’arte e lascia un segno.
Quali sono i punti di contatto e di differenza nelle vostre storie che convergono in EraCruna?
Ci presentiamo sempre dicendo che: “Ci sono una pugliese, una piemontese e due siciliane… e non è l’inizio di una barzelletta”. Tutto parte proprio da qui, da origini e natali sparsi per l’Italia, dalla paniscia novarese, passando dai panzerotti del Gargano sino all’ultima arancina fritta del Sud Italia.
Le nostre origini come i nostri stili di vita personali hanno creato quattro persone completamente diverse, a tratti ed ironicamente anche incompatibili, che si sono trovate per caso (ma riunite per scelta), guidate da un unico obiettivo: il teatro. Il teatro come passione, come bisogno, urgenza e professione. A volte ci risulta complicato persino scegliere un ristorante che possa soddisfare una vegetariana, una quasi vegana, un’amante delle bistecche e una che non può mangiare il sale, ma abbiamo capito che le nostre differenze ed unicità possono risultare un valido punto di forza nel nostro lavoro, che vive grazie ai confronti e agli stimoli di differente natura. Sono poche cose quelle che ci fanno incontrare ed è su quelle poche cose e sulle tante divergenze che abbiamo costruito i pilastri di questa associazione. Siamo sicure che quelle poche cose aumenteranno con il tempo e con l’esperienza, e che, forse, troveremo anche un ristorante dove mangiare tutte assieme dopo i nostri spettacoli.
Siete tutte under 35: quali sono le maggiori difficoltà che una giovane professionista deve affrontare per “mettersi in proprio” in un mondo tanto meraviglioso quanto complesso come il teatro?
Le difficoltà sono tante, forse impossibili da elencare, tra questioni di discriminazioni di genere o di età, poltrone impolverate che pretendono di dettare ancora le regole del teatro italiano, povertà e marginalità del settore, favoritismi, raccomandazioni, o anche, banalmente, ottenere dopo settimane una risposta dall’INPS o dall’Agenzia delle Entrate. Ma se si hanno le giuste competenze, conoscenze e strumenti, tutte queste difficoltà si possono superare, o, in qualche modo, affrontare.
Come produzione abbiamo dovuto fare un percorso per imparare le regole del mercato teatrale, dell’organizzazione, dell’amministrazione e di tutte le burocrazie che dietro le quinte mandano avanti i nostri spettacoli e grazie a queste nuove conoscenze da poco abbiamo intravisto una possibile strada da percorrere. Il percorso da compiere è ancora lungo e soprattutto pieno di imprevisti, cambiamenti e casualità sui generis che dovremo affrontare, che a volte dipendono da contingenze o minacce esterne che non sono in nostro potere, ma la consapevolezza di ciò non ci fa ancora arrendere, anzi, ci fa procedere con maggiore determinazione. Come EraCruna ci impegniamo nello smuovere o smussare queste difficoltà, cercando di trovare e creare partendo da esse delle opportunità, gestite con rispetto e dignità personale e professionale.
Da dove nasce la scelta di portare in scena la storia di Rosa Balistreri e qual è il segno che ha lasciato in voi?
Tutto nasce da un master in drammaturgia dove è stato chiesto a Rosy Lo Calio (drammaturga del testo “La Malarazza”) di scrivere qualcosa di cui sentisse il bisogno di parlare. Il suo bisogno era quello di raccontare della sua terra, di una Sicilia tanto arida quanto dolce, una madre severa, che l’aveva costretta ad andare via e che la faceva sentire incompresa. La voce di Rosa, che più volte aveva ascoltato, raccontava perfettamente il suo risentimento, la sua rabbia, ma anche l’amore profondo per questa sua terra.
Quando Rosy ci ha proposto di mettere in scena il testo “La Malarazza” , ci ha subito sorpreso scoprire una figura così potente come quella di Rosa Balistreri, con la sua voce così piena e terrena. Rosa Balistreri è una donna che protesta, che si ribella, che pretende rispetto: la sua figura ci è subito apparsa come un riflesso dei nostri corpi e delle nostre menti, e la sua lotta, degli anni 50’, e la nostra lotta, oggi, sembravano improvvisamente un’unica cosa. Così abbiamo deciso di usare la sua storia, per raccontare, velatamente, un po’ la nostra di storia, usando quel coraggio e quella forza che Rosa aveva.
Tra i tanti esempi, Rosa ci ha insegnato che le formiche, seppur piccole, lavorano insieme per il bene collettivo e possono cambiare nel loro piccolo il mondo, e che le rose anche se sono appaiono belle e fragili, pungono con le spine, e che se non ci sentiamo ascoltat*, abbiamo il diritto di cantare più forte, e che dal dolore, dalla sensibilità, e dalla fragilità può nascere il coraggio di continuare a camminare a testa alta.
Dopo il vostro spettacolo, puntate ad ampliarne il messaggio con interventi di altre personalità: quali sono i temi che volete approfondire e perché?
EraCruna non vuole portare avanti un messaggio teatrale di puro divertimento, ma nemmeno avere la presunzione di promuovere delle lezioni di vita. Per noi il teatro è uno strumento, valido e adattabile alle circostanze, necessario alla persona e alla sua società. Dopo i nostri spettacoli cerchiamo sempre di ampliare questo incontro tra sconosciut* con altre personalità che possano contribuire alla costruzione e al rilascio del senso della nostra arte e del nostro modo di vivere il teatro. Per fare ciò, non abbiamo delle tematiche prestabilite o prefissate di cui vogliamo parlare. Partiamo sempre da ciò che sentiamo che la gente ha bisogno di ascoltare, comprendere o conoscere, da quelle che sono delle nostre personali mancanze che ci ricollegano al mondo e ci fanno agire ogni giorno alla ricerca e all’esplorazione della vita. Partiamo dai conflitti, dalle mancanze e da ciò che fa rumore e cerchiamo di dar loro non solo una forma artistica ma anche un proprio spazio e un proprio tempo vivi di senso e concretezza.
Secondo i dati mappati dal collettivo Amleta, la presenza femminile nei teatri italiani è del 32,4%, a fronte del 67,6% di quella maschile. Le drammaturghe sono quelle che hanno la percentuale in assoluto più bassa, pari a 20,7%. Questo vuol dire che l’80% della narrazione viene fatta da un punto di vista maschile. Cosa ne pensate a riguardo e avete mai constatato questo divario in prima persona?
La storia della drammaturgia è stata prevalentemente portata avanti da scrittori e personaggi maschili, come riflesso di una dittatura patriarcale che ha dettato le leggi di tante altre storie, se non della Storia in generale. Ma questa cosa forse appartiene più al passato che al presente. In questo momento storico sentiamo di poter respirare l’aria di un cambiamento per le questioni di genere legate al nostro lavoro e non, e non possiamo fare altro che ringraziare e unirci alla lotta di tutte le persone che quotidianamente agiscono per apportare questo cambiamento, affinchè tutt* possano godere della libertà di occupare il proprio spazio d’espressione ed affermazione.
🌱 La parola
Autodeterminazione
Capacità di scelta autonoma ed indipendente della persona.
Come insegna Carla Lonzi, si tratta di un “ripensarsi al di fuori dal solco tracciato dai pensatori, una rifondazione, una critica diretta e che non fa prigionieri”. Ne abbiamo ancora bisogno. Nessuna paura della “cultura che ci è sempre appartenuta”.
🍸 Coraggio liquido
Tutte le botaniche che lo compongono vengono lavorate separatamente per ottenere il miglior equilibrio tra i sapori: Gin Animus scorre bene tra sacro e profano, concetti che diventano sapori attraverso l’accostamento tra gelsomino e incenso (sì, anche l’incenso è una botanica inusuale). Mixare l’insolito, ottenere l’audace.
❤️ L’amore è una playlist
Alla fine quello che conta è:
💫 Autodiagnosi e cura
Autodiagnosi: discpilinata indulgenza.
Cura: fare come so fare, comunque ballare.
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