Sono sempre stata scheggia, rapida in più o meno tutte le cose che mi appassionavano. Università compresa. Il tempo creava tempo, quello che facevo non era sempre quello che volevo al 100% ma ci andava vicino. Una passione spropositata e una curiosità dilagante ha sempre mosso non solo il mio agire. Ma pure il mio pensare. Con questi motivi più o meno inconsci ho accolto Roma, l’ho costruita sul mio corpo con dolore e amore, ho scritto cose bruttissime e bellissime, ho parlato in radio, mi sono seduta dietro ai microfoni, mi sono sentita piccola e grande, mi sono lanciata senza paracadute, ho percorso le stesse strade volando e sempre verso destinazioni diverse. Non ho avuto paura di niente. Nemmeno di chi mi diceva che non sarebbe stato sempre così. Dalla mia c’era l’arroganza dei vent’anni all’inizio, una certa inconsapevolezza, una grande grandissima energia. Il femminismo è diventata “la mia festa” mentre scrivevo la mia tesi di laurea magistrale: “Nominare è fare esistere”, lo dicevo già e ancora non sapevo niente. Io, prima di allora, non so se avessi davvero mai riflettuto sulla parola “nominare”. Eppure stavo cercando di nominarmi. E nel cercare, creavo già spazio. L’azione che precede il pensiero.
Per questo motivo, prima di parlare di lavoro dobbiamo parlare di identità.
Il mercato del lavoro definisce la nostra identità. Stabilisce il nostro status. Perimetra le risorse su cui costruirsi. L’identità è un fatto sociale, non è innata. Se è ancora il posto che occupiamo nel mercato a definire il nostro posto nella vita, allora chi siamo?
Me lo sono chiesto quando, quella tesi in cui “nominavo per far esistere”, non aveva finito il suo corso. Eppure io ero già seduta dietro a una scrivania. A imparare cose che mi avrebbero interessato relativamente ma mi avrebbero definita nel tempo. In relazione a me, in relazione al mondo, in relazione a cosa “voglio” e a cose “devo”.
In un post instagram del 2019, scrivevo così (Nicoletta del passato più saggia della Nicoletta del presente). In stage da due settimane, già pienah:
Sopravvissuta a un weekend di lauree. Riti cerimoniali oliati e rodati che vestono persone e sogni diversi. L'alloro, il prosecco, il rosso, la tensione, l'adrenalina, l'ottimismo insensato, la sottile brama di preservare la diversità in un percorso per tutti uguale. Ma l'inizio, quello vero, quello blasonato, quello de "quando lavorerai, capirai", non lo trovi spiegato in nessuna bibliografia. L'inizio è una nota a piè di pagina scritta in Times New Roman 9: quella che non ti caghi. Negli spazi impercettibili, tra il "desidero" e il "posso", la sveglia delle 7.30, le mattine grigie, il disagio di camminare perennemente in un equilibrio precario, i caffè condivisi, i discorsi in cui si parla del più e del meno, l'automatismo delle cose, le personalità da acquisire, le capacità che devi dimostrare, le dinamiche di gruppo che devi rodare, il primo pranzo tra colleghi, il pranzo in schiscetta, la musica da scrivania, le persone grandi e tu che sei piccola, i pomeriggi che vedi passare tra tastiera e finestra. Fuori la piazza esplode. Probabilmente vorresti essere lì ma, sempre probabilmente, per arrivarci da "grandi" bisogna prima sentirsi "piccoli tra i grandi". E, nel mentre, attenta a non farti schiacciare/dimostra chi sei/sii accondiscendente ma non troppo/arriva puntuale/sii simpatica ma riservata/sii appassionata ma stai nel sistema: non è ora il momento di chiederti se stai vivendo la vita che desideri, devi rispondere a chi ti vuole competente, sveglia, smart, dalla battuta pronta, capace. Eccellere, solo un prerequisito. E ci vogliono affamati. E ci vogliono bravi. Ma pure belli. E vestiti bene. E, possibilmente, con un senso dell'umorismo che si allinei con quello dominante.
Sogno, voglio e pretendo un mondo in cui ognuno abbia l'opportunità di fare quello in cui riesce meglio. Senza aver bisogno di dimostrarlo h24. Ai miei amici, quelli laureati questo weekend e pure quelli che sanno di avere la mia stima: meritate questo e molto di più.
La passione che diventa lavoro può essere ancora passione? Non lo so. Non ho una risposta. Quello che so è che desiderare è un gesto politico potente: e io desidero pormi le stesse identiche domande di cinque anni fa. Perché avevo ragione. Perché non può essere tutto qui. Perché “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” è una frase che Gramsci, probabilmente, aveva posto a favore di un’utilità collettiva: si è solo in relazione.
Cosa porta il lavoro fine a sé stesso? Perché la frustrazione collettiva non diventa disobbedienza? Resistere è domandarselo, partire dalla cosa più piccola per arrivare al disegno più grande: non cedere alla rassegnazione. Imparare a chiedere. Non si tratta di cambiare il sistema, ma di sgretolarlo con la costanza di una goccia. Anche e soprattutto se si è in una posizione di privilegio. E come lo si fa? Mettendo al centro i propri desideri. Ricordandosene sempre. La felicità, quando è buona, si paga poco o niente.
Voglio chiudere tutto e coltivare un orto sulle Murge? No.
Voglio vivere secondo i miei desideri. Non dover “potermelo permettere”. Assecondare chi sono, prima di chi devo essere. Vorrei poter vedere che tutt* facciano lo stesso. Vorrei fare come fanno gli alberi: coltivano per sbocciare secondo quello che hanno, in base alla condizioni, a seconda dei fiori che sono capaci di dare.
“Fammi leggere le tue poesie perché voglio vedere come sei fatta” disse Elsa Morante e Patrizia Cavalli: vorrei che il lavoro abbia a che fare con questo. Con come si è fatti. E che le condizioni rispettino questo. E nient’altro. Le persone al centro. Le persone.
La sensazione è che abbiamo tutt* la stessa sensazione. Eppure, corriamo e avvalliamo lo stesso sistema. Per le donne, il sistema non è solo opprimente. Ma pure più severo.
“L’ingresso” nel mondo del lavoro - spesso ancora narrato come una “gentile concessione” - è diventato l’ennesimo alibi per ricalcare il paradigma maschile: lavora “come un uomo”, “vivi come una donna” (ovvero, accollati il 76,2% del lavoro di cura, secondo i dati del rapporto Care Work and Care Jobs for the Future of Decent Work). Stando ai fatti, dunque, servirebbe una moglie per ogni donna che lavora.
Non solo: secondo il rapporto Benessere Equo e Solidale stilato dall’Istat, nelle coppie di età compresa tra i 25 e i 44 anni, anche quando sono entrambi i partner a lavorare, l’uomo si fa carico solo del 37,4% del lavoro domestico e di cura. E al Sud? Ancor meno: gli uomini si fanno carico del 30,1% di queste attività: le donne diventano (prevalentemente) madri, gli uomini proseguono la loro vita professionale quasi come prima.
Per le donne, d’altronde, il denaro è sempre arrivato “nel nome di un uomo”: padre, marito, fratello o figlio. Anche nella cultura dell’antica Roma, che pure riconosceva alla donna una notevole autonomia amministrativa nei confronti del denaro di casa, si rileva una cerimonia matrimoniale particolarmente emblematica: la manus iniectio. Il padre poneva la propria mano sul capo della figlia, prendeva poi la mano del futuro genero e la sostituiva alla propria: con questo sanciva non solo l’importanza di una “protezione” maschile, ma anche di una sottomissione economica.
In superficie molte cose sono cambiate da allora, ma l’inconscio personale e collettivo che determina i nostri comportamenti sociali ricalca lo stesso percorso: anche per questo, nonostante i passi avanti, il rapporto tra donne e denaro resta ancora circondato da un tabù in cui abitano inconsce e profonde paure.
Nel 1949, la scrittrice e partigiana italiana Alba de Céspedes, già raccontava con mirabile precisione il tacito patto coniugale che sottende il controllo economico delle donne da parte dei mariti. In Dalla parte di lei (Mondadori), scrive: “Quasi tutte, in casa, facevano lo stesso lavoro di una serva; ma alla serva non diciamo mai ti mantengo perché lei – in cambio del denaro che riceve, e del vitto, e del letto – ci dà il suo fidato lavoro. E la moglie, invece, fa lo stesso lavoro di una serva, e quello di una donna che si paga, e allatta i bambini, e li custodisce, e cuce i loro vestiti, e rammenda i panni del marito, senza pretendere neppure lo stipendio della serva. Eppure, nonostante questo, il marito può dirle: ti mantengo”.
Non solo nel lavoro di cura, ci va peggio pure in quello salariato. Come scrive D’Ascenzo qui:
Nell’Unione Europea le donne guadagnano in media il 13% in meno rispetto ai colleghi uomini e il divario retributivo di genere è rimasto sostanzialmente immutato nell’ultimo decennio. La disparità retributiva espone le donne a un maggiore rischio di povertà e contribuisce al divario pensionistico dell’Ue, che nel 2018 si attestava intorno al 30%, scrive il Consiglio Europeo. E in Italia? Il gender pay gap è stimato al 15,5% nel settore privato. Dato che cresce con il tempo e la carriera: la differenza all’ingresso nel mondo del lavoro è dell’8,2% e sale al 24,4% per gli individui con più di cinquant'anni. Senza contare poi che in Italia l’occupazione femminile resta fra le più basse d’Europa.
“Chiedo un aumento una volta l’anno durante la yearly performance review. Dimostrando la mia performance e paragonandola a quelli che sono gli obiettivi della compagnia e il mio piano di crescita - mi racconta Silvia Cardascia, SOC analyst a Londra - “Generalmente hanno una percentuale massima che usano per aumentare lo stipendio, ma tendo a chiedere di più così mi danno il massimo che possono. Se non sono soddisfatta e noto che sono pagata meno di quanto il mercato detta per quella posizione, inizio a cercare altro e cambio se mi conviene. Purtroppo, però, anche qui hanno problemi nel parlare di soldi, in generale, tra conoscenti e soprattutto tra colleghi, quindi il tutto si basa su ricerche in siti come Glassdoor o conversazioni fatte con amici che hanno il mio stesso lavoro”.
Lo scorso 18 settembre, a livello globale, si è celebrato l’International Equal Pay Day istituito da ILO, UN Women e Ocse nel 2020. Un’iniziativa resa necessaria dal fatto che le donne guadagnano in media 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato dagli uomini. Per semplificare: lavorano gratis per due mesi all’anno. Una differenza non più tollerabile considerato il contributo femminile al Pil dei singoli Paesi non solo in termini di lavoro retribuito, ma anche di lavori di cura non retribuiti.
Centrarsi sui desideri ha un costo preciso.
📰 Rassegnami
Molestie e pubblicità: basta minimizzare, serve un cambio di passo degli uomini
Lo hanno chiamato il #MeToo della pubblicità, sui social è stato uno dei temi più presenti l’estate scorsa. Chiara Di Cristofaro ha intervistato Massimo Guastini, in pubblicità da oltre 40 anni, che con la sua intervista a Monica Rossi ha (ri)aperto il vaso di Pandora. Ne avevamo parlato qui.
Come sta andando con l’aborto farmacologico in Italia
Non bene da quel poco che si sa, tra ritardi, obiezioni di coscienza e linee guida non applicate: lo conferma una nuova ricerca.
La storia della “battaglia dei sessi”
Cinquant'anni fa un uomo e una donna si sfidarono in una delle partite di tennis più famose di sempre, che cambiò molte cose.
Straordinarie: artiste, politiche, scienziate, scrittrici in mostra al Maxxi di Roma
Nella tradizione fotografica del ritratto, le donne sono state spesso rappresentate come oggetti passivi: di solito posano in posizione subalterna rispetto al fotografo che le osserva dall’alto, il loro sguardo è docile e sfuggente. L’ambientazione è di norma un contesto privato, quando non intimo come la camera da letto, che ci può dare informazioni sul loro ruolo di madri, di mogli o di semplici oggetti del desiderio. Da anni ormai la riflessione sulla rappresentazione della donna ha permesso di superare questa impostazione stereotipata e sessista (anche se di foto così se ne fanno ancora tante), e guardando i ritratti di Ilaria Magliocchetti Lombi, in mostra al museo Maxxi di Roma dal 13 settembre al 6 ottobre, vediamo subito che qui le donne sono soggetti più che attivi: guardano dritte in macchina o giocano con l’obiettivo, chiaramente messe a loro agio dalla brava fotografa.
Cronisti sportivi e sessismo: abbiamo un problema
È successo di nuovo. Un cronista sportivo è entrato a gamba tesa nei titoli di giornale per via della polemica suscitata da una sua frase sessista. Questa volta è toccato a Nicola Zanarini, che nel corso della radiocronaca di Reggiana-Cremonese a “Tutto il calcio minuto per minuto”, ha detto: “Un gol meraviglioso, il primo di Manolo Portanova, l’uomo più discusso dall’inizio della stagione a Reggio Emilia, che ha spaccato la tifoserie con la sua condanna in primo grado per stupro. Un gol davvero meraviglioso, che mette a tacere le polemiche, anche se poi ricordiamo che tra qualche mese ci sarà l’appello del processo a Firenze per stupro di gruppo. Ma torniamo allo sport”.
🎯 Nominare è fare esistere
Solo il 16% delle biografie presenti su Wikipedia riguarda le donne: una percentuale impari e incrementata dal lavoro di Wikidonne. In questo spazio ridiamo spazio: una bio per ogni numero. Storie per riscrivere la storia.
Nan Goldin
Il 12 settembre Nan Goldin ha compiuto 70 anni e il suo sguardo è ancora rivolta.
Nata a Washington il 12 settembre 1953, Goldin è considerata tra le più prestigiose fotografe contemporanee. La sua fervida aderenza a importanti cause e tematiche, tra cui sessualità e dipendenza, l’hanno portata a schierarsi in ogni circostanza e a rendere la sua arte una voce del margine. Come raccontano Michela Murgia e Chiara Tagliaferri nel podcast Morgana, Goldin fin da giovanissima sperimenta il trauma e il dolore, soprattutto per via dell'istituzionalizzazione e poi del suicidio della sorella Barbara, ritenuta turbata da problemi mentali.
Sconvolta dalla sofferenza, Goldin lascia la sua casa e inizia a fare uso di marijuana e a frequentare le più svariate subculture urbane, soprattutto le comunità gay e transgender prima di Boston e poi di New York.
Le sue fotografie, a cui comincia a dedicarsi dai 16 anni, la ritraggono insieme ai suoi amici ma rappresentano anche drag queen, tossicodipendenti e altre persone ai margini immortalate nella loro verità. Come ha dichiarato la stessa artista riferendosi ai suoi ritratti drag:
Il mio desiderio è ritrarli con rispetto, glorificandoli perché ammiro le persone che sanno reinventarsi.
Stile esplicito e decadente, setting spontanei e volti reali ripresi nella loro spiazzante intimità: lo sguardo di Nan Goldin è unico e distintivo e la sua opera Ballad of Sexual Dependency del 1985, riproposta anche nel 2017 alla Triennale di Milano, ne è il manifesto.
Goldin raffigura sé stessa e molti conoscenti in uno slideshow, mostrando la vita di un gruppo di persone ed entrando con delicatezza e verità negli angoli più privati e fragili della loro quotidianità: un modo di guardare che definisce il suo stile, senza fronzoli né filtri e capace di parlare in modo diretto – “nudo e crudo” - al cuore delle persone.
Nel documentario All the Beauty and the Bloodshed - con cui ha vinto il Leone d’Oro - la stessa Goldin racconta come all'inizio della sua carriera fosse quasi impossibile introdurre le proprie opere nelle gallerie di New York, quando a decidere cosa potesse essere degno d'esposizione erano solo maschi bianchi borghesi, che di sicuro trovavano riprovevole la rappresentazione di drag queen, uomini gay in abiti leather, bohémien e così via.
La caparbietà di Goldin la contraddistingue nella sua vita artistica e personale: è attivista di Act Up (Aids Coalition to Unleash Power), l’organizzazione internazionale impegnata a richiamare l’attenzione sulle vite dei malati di Aids e, nella sua ricerca artistica, continua a portare avanti la sua cangiante visione del mondo e le istanze della comunità LGBTQIA+, a cui lei stessa appartiene essendo una donna bisessuale.
Lo scorso aprile alla Biennale d'arte di Venezia ha presentato il suo primo video, Sirens, un montaggio di scene provenienti da trenta dei suoi film preferiti che portano chi guarda in un viaggio ipnotico, simile all'estasi dell'ebbrezza procurata dal canto ipnotico delle sirene mitologiche. Il prossimo ottobre, invece, il Moderna Museum di Stoccolma dedicherà una retrospettiva alla sua attività da filmmaker, d'altronde lei stessa ha sempre dichiarato:
Non ho mai voluto fare la fotografa, ma la regista. ho trovato il modo di fare dei film attraverso immagini immobili. e fare carrellate di diapositive mi ha dato il lusso di modificarle continuamente per riflettere la mia cangiante visione del mondo.
🌱 La parola
Divario retributivo di genere
Per divario retributivo di genere (in inglese gender pay gap) si intende la differenza media che sussiste tra i salari orari lordi percepiti dagli uomini e dalle donne. Unendo situazioni molto diverse tra loro per condizione contrattuale, ambito lavorativo, età e titolo di studi, si rileva un unico valore aggregato, in grado di rispecchiare il divario medio tra uomini e donne in termini di compenso sul lavoro.
Dal 2006, il divario retributivo di genere viene misurato dal sistema statistico europeo utilizzando delle linee guida ben definite dall’indagine sulla struttura delle retribuzioni. Innanzitutto, non sono applicate correzioni sulle differenze che possono sussistere a livello nazionale per poter permettere di fare dei confronti tra i vari stati. Inoltre, sono utilizzati i pagamenti orari invece dello stipendio mensile perché nel calcolo sono inclusi sia i contratti di lavoro full-time che quelli part-time.
Per calcolare questo indice, sono considerate le imprese con dieci o più lavoratori. Si includono tutti i lavori ad eccezione del settore agricolo e forestale, della gestione amministrativa delle pubbliche amministrazioni e della difesa e posizioni lavorative in enti sovranazionali. Non sono compresi nemmeno i contratti di apprendistato e le forme di lavoro informale e irregolare. Non ci sono esclusioni in base all’età né al numero di ore lavorate.
🍸 Coraggio liquido
Se i posti sicuri avessero un nome si chiamerebbero Sabatini: quando non vuoi sbagliare, sceglilo. Accontenta tutt* perché è gentile, morbido e vellutato. L’agrume c’è ma non è invadente: be Sabatini. Esserci ma non troppo.
❤️ L’amore è una playlist
Fashion week, commenti a caldo:
💫 Autodiagnosi e cura
Autodiagnosi: bravissima, ma mai con me. Abilità è noia.
Cura: riconoscersi nelle cose, dire “mi piace”/”non mi piace”, ascoltare.
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