Io non lo so come ci si riprende dalla settimana sanremese, so solo che “le ali sotto i piedi” è una sensazione che esiste. È chiara, precisa, leggera. Sa di amore, verso sé e verso gli altri. Stare al centro delle cose e portare qui il margine: Sanremo non è solo un palco ma una discoteca labirinto assurda, pazzesca, volante.
Scrivo 48 ore dopo il treno che mi ha riportata a casa e avverto forte fortissimo una leggerezza potente: quella di sapere di poter fare le cose. Tutto, ma proprio tutto, diventa possibile. Muoversi al Festival di Sanremo è prendersi spazio, fare spazio. Una palestra in cui non conta tanto l’allenamento, ma la reattività. Arrivare in sala stampa con gli occhiali scuri e uscirne con gli occhi lucidi, dilatati, luminosi: stare nelle cose, viverle, attraversarle. Questo cambia il mondo. Questo è stato il mio Sanremo e questo è quello che ho capito: tutto diventa strada. Che giri fanno due vite? Non lo so, ma quello di cui sono certa è che il percorso è pazzesco. Salire e scendere. Deviare. Saltare. Aggiustare il tiro. La mia bolla si è rotta e la radicalità è portare sé stesse nel mondo: non lasciarsi ingabbiare dagli stessi stereotipi contro cui combattiamo. Anzi, per cui combattiamo. Non confondere il mondo virtuale con quella che è la realtà. Accompagnare le lotte, abitare gli spazi che non sono sempre protetti: non ci muoviamo solo nelle assemblee. Non ci confrontiamo solo nei collettivi. L’Ariston è il teatro della realtà è portare lì temi precisi - dalla maternità all’autodeterminazione dei propri corpi - è una responsabilità prima di tutto politica.
Ho letto Carla Lonzi, ho studiato la pratica femminista nelle sue ondate, la vivo quotidianamente, ne scrivo, ne parlo, leggo tantissimo, mi prendo il tempo di poterlo fare, ho lo spazio per approfondire, confrontarmi, partecipare a conferenze, presentazioni, dibattiti: lo capite che questo è un privilegio? Lo capite che no, non tutte le donne possono farlo?
Il privilegio di considerare Chiara Ferragni banale e obsoleta è questo. Non riconoscerlo è riduttivo e limitante: parlarne tra noi non basta più. Questo rende Ferragni esempio di femminismo d’eccellenza? Assolutamente no.
È chiarissimo e limpidissimo che la sua comunicazione sia profondamente autoreferenziale, semplicistica, con l’occhio strizzato al capitalismo: ci aspettavamo diversamente? La scelta di scrivere il monologo di suo pugno rispecchia il valore che ha di sé e della sua autorappresentazione. Ho sobbalzato dalla sedia su “Diventerai una madre anche tu e sarai sempre la stessa persona, con gli stessi dubbi e le insicurezze di sempre”. Eppure a tante donne che “Mostruosa maternità” non lo hanno letto è servito sentirselo dire.
Io chi sono esattamente per dire cosa femminismo non è? Ferragni è ciò che più lontano da me esista al mondo. Ma non sono io il centro. È questo che la postura femminista insegna. Spostare il centro.
Il centro non è solo il sit in, il corteo, la manifestazione. Il centro è accompagnare le domande, permettere di dare un nome alle cose, spiegare a nonna femminista ante litteram e lasciarsi spiegare, sforzarsi per dare il contesto, prendere il buono e piazzarlo negli spazi che diventano nostri. Serve parlare a voce alta, ma serve pure ascoltare.
Reel, commenti e ig stories si sprecano su argomentazioni solidissime e intaccabili per cui “i diritti non vanno mercificati etc”. Eppure, come scrive benissimo in questo post Silvia Grasso, “far diventare merce un valore significa originariamente renderlo visibile, renderlo concreto, renderlo corpo. E se ci pensiamo bene, questa è un tipo di esigenza che soddisfiamo quando indossiamo le nostre felpe o tshirt con slogan o frasi di riferimento per mostrare al mondo intero che tipo di causa sposiamo, perché noi siamo quella causa”. Inoltre, “facciamo diventare merce un valore anche quando stiamo qui sopra, nelle nostre care bolle virtuali, e attraverso di esso, ci vendiamo nella nostra immagine e nella nostra identità. Si chiama capitalismo e nessuno ma proprio nessuno ne è immune”.
Il monologo di Chiara Ferragni è ovviamente retorico, banale e mancante (non parla di privilegio, ignora le basi di tutto quello che definisce il femminismo intersezionale) e averlo ascoltato me lo ha fatto subito pensare. Mi sono stranita? Tantissimo. L’ho trovato riduttivo? Certo. L’ho trovato utile? Moltissimo. E adesso quello di cui abbiamo più bisogno è l’efficacia: sfondare la porta e costruire la casa. Quello che dovevo dire lo ha già detto Elena Ferrante con la sua Lila, l’amica geniale che mi fa sentire scomoda: “sann sann, ma non sann nient”. Questo è quello che Ferrante fa dire a Lila dopo aver partecipato a una festa di “gente giusta e intelletturali che contano”. Questo è quello che penso quando leggo l’ennesimo saggio su cosa le donne devono fare o non fare per essere definite femministe. Not my cup of tea.
Parliamo di rappresentazione e inclusività, eppure dettiamo gli schemi di cosa deve essere rappresentanto e come. Ribaltare la grammatica, ma prima conoscere il linguaggio: un messaggio funziona se non hai bisogno di spiegarlo. Il femminismo è di tutt*.
🎼 Speciale Sanremo, il Festival da addetta ai lavori: tips&gin
Dormi pochissimo, mangi poco, lavori molto, bevi tanto, ti diverti troppo: il Festival di Sanremo è quella cosa per cui alle 6 ordini l’ultimo gin tonic e alle 12 sei in diretta con Amadeus.
Modulare le domande per farle emergere: si sopravvive a una platea di giornalisti non solo con il talento. Serve l’intelligenza reattiva alle poche ore di sonno. Vuoi fare una belvata? Falla e sorridi (qui tutorial con Francesca Fagnani).
Rispetta il lavoro altrui, osserva come si gestisce una sala stampa: una palestra professionale incredibile, ti alleni con lo sguardo.
Le persone sono tutto. Lavorare, ridere, condividere. L’energia, le vibes: essere chi si è.
Non fermarti, non arrenderti: dove non arriva un accredito arriva l’irriverenza.
Non contare i passi: non senti la stanchezza, parli, domandi, ti viene chiesto, rispondi, ti innamori.
La forma è sostanza: osa. Indossa quella giacca con le piume senza remore. Metti quelle scarpe viola.
Ricordati chi sei pure quando salti la fila per il green carpet e dici “Ciao, Marco! Caffè?”.
Il vero spettacolo è nelle strade: parla con la gente, dialoga con i tassisti, ascolta la security.
Le feste si fanno davanti al mare, con i Cugini di campagna in consolle: o questo o niente.
Sii grata, ringrazia, studiati: cos’è che ha funzionato così tanto per essere stata così te? Riconoscersi e approfittarne. Mi sento pazza e pazzesca, mi sento Elodie. Vi avviso quando mi passa, lasciatemi vivere questa specie di sogno reale che non passa.
Il mio Sanremo in un minuto e trenta: grazie alla redazione di RadUni Musica e al meraviglioso network di radio universitarie che mi ha lasciato campo libero. Una libertà che non ha prezzo, né parole. Solo grazie.
📰 Rassegnami
Il monologo di Francini e l’ingombrante voglia di maternità: una scelta a cui non siamo preparate
Da almeno 20 anni, non ci sono politiche a sostegno della maternità, non se ne occupa la destra e tantomeno la sinistra, e le madri devono affrontare i problemi nel loro privato. Altre, spaventate dalle difficoltà che dovrebbero affrontare, rinunciano. È diventato un lusso anche chiedersi se da qualche parte, in qualche sogno, ci sia quel desiderio nascosto.
Paola Egonu: «Che ne sai di me?»
“Diciamo che in futuro mi piacerebbe battermi per i diritti in cui credo, ma da attivista più che da avvocata. Mi piacerebbe anche lavorare nella moda: sfilare o disegnare una mia collezione. E non escludo nemmeno la tv, magari con un programma in cui invito gli atleti a raccontarsi”. Paola Egonu non è qui per tranquillizzarci sul fatto che non siamo razzisti.
Perché abbiamo appaltato ai monologhi di Sanremo il senso della vita?
Forse, il primo passo da fare per provare a correggere il tiro è chiamare le cose con il loro nome, e quindi basta parlare di monologhi, anche perché, come ci insegna il teatro, il monologo è sempre qualcosa di “agito” e non soltanto di parlato. Quelle dell’Ariston sono cose che in altri tempi avremmo chiamato testimonianze, storie di vita particolari con l’ambizione di attingere all’universale.
Come ha sottolineato lo stesso vincitore Megoni, la 73esima edizione del Festival di Sanremo ha avuto un podio tutto al maschile.
L’Ariston rispecchia perfettamente l’industria musicale: a livello internazionale (“Women in Music” 2021), solo in ambito produzione il rapporto donna-uomo è 1 a 37, mentre nell’autorialità, quindi nel ramo di scrittura di testi e musica, le donne sono poco più del 12%.
🎯 Nominare è fare esistere
Solo il 16% delle biografie presenti su Wikipedia riguarda le donne: una percentuale impari e incrementata dal lavoro di Wikidonne. In questo spazio ridiamo spazio: una bio per ogni numero. Storie per riscrivere la storia.
Nilla Pizzi
A vincere la prima edizione del Festival di Sanremo, nel 1951, è stata proprio una donna: Nilla Pizzi con Grazie dei fiori, probabilmente ancora poco consapevole del significato che la vittoria al Festival avrebbe acquisito nel tempo.
Nilla Pizzi è stata la prima a trionfare, portando sul palcoscenico la sua storia. Nasce nel 1919, in un comune del bolognese: è sarta, lavorante in un panificio militare, collaudatrice di radio. Il suo carisma le permette di vincere il concorso “Cinquemila lire per un sorriso", una sorta di primordiale “Miss Italia", e da lì comincia la sua carriera: a diciannove anni canta per le Forze Armate e, di concorso, ne vince un altro indetto dall’antesignana della RAI che cerca voci nuove. Supera diecimila candidati e nel 1944 incide il primo disco. Un inizio promettente che si spegne quella stessa primavera quando viene allontanata dalle scene perché la sua voce è “troppo esotica e conturbante” per il regime fascista in auge. Nel 1946, a guerra finita, torna in radio sino alla grande proposta:
Nilla deve vestirsi elegante, si esibirà in un salone delle feste, al casinò. Vogliono fare un festival ma nessuno sa bene di che si tratta. Si paga cinquecento lire per una cena, si mangia e i cantanti si esibiscono. È il 1951 e le persone che si godono la cena con spettacolo diventano i primi giurati del festival di sanremo: Nilla pizzi vincerà.
Grazie dei fiori vende trentaseimila copie e nel 1952, al secondo Festival, la cantante incassa il record: conquista primo, secondo e terzo posto. Le sue sembrano “solo canzonette”, ma non lo sono: canta Papaveri e papere, metafora delle diseguaglianze di potere. La canzone viene censurata dalle radio perché ritenuta di sinistra, ma Nilla Pizzi non arresterà la sua ascesa.
🌱 La parola
Women empowerment
Secondo l’EIGE, ovvero l’European Institute for Gender Equality, con l’espressione “empowerment of women” (o Women Empowerment) si intende quel processo grazie al quale le donne (ri)acquistano potere e controllo sulle proprie vite acquisendo, di conseguenza, la capacità di fare scelte strategiche per loro stesse.
In altre parole, è il percorso grazie a cui, attraverso l’educazione, l’informazione, la divulgazione e la sorellanza, le donne riescono a riprendere in mano le proprie vite e decidere in autonomia cosa vogliono essere e cosa vogliono realizzare.
Lacrime mie o lacrime tue.
🔥 Compiti per il weekend
A Roma dal 17 al 19 febbraio andrà in scena “Saperlo prima”, il primo e unico festival italiano sulla sessuo-affettività: tre giorni di talk e tanti ospiti dal mondo dell’università, dell’informazione, della tv e dei social per sensibilizzare sul tema e ottenere che l’educazione sia introdotta ufficialmente nei programmi scolastici. Ci vediamo a Largo Venue, Pigneto?
🍸 Coraggio liquido
Il suo nome deriva da una tradizione giapponese per cui le persone si riuniscono per godere della bellezza dei fiori di ciliegio, quando la primavera inizia ad arrivare: così mi sento. Gin Hanami è realizzato con una combinazione di nove vegetali, con essenza di fiori di ciliegio giapponese. La festa per cui è stato lanciato - i ciliegi in fiore - celebra la rinascita e il rinnovamento: il sapore è aromatico, morbido, floreale. Innamoratevi.
❤️ L’amore è una playlist
L'amore è solamente di chi prova amore.
💫 Autodiagnosi e cura
Autodiagnosi: tutte le corse e gli schiaffi gli sbagli che fai quando qualcosa ti agita.
Cura: non curarsene.