Se domani sarò io, appicciate tutt cos
Il mare lo sa: riflessioni sparse e cose che non mi va più di fare
Questa newsletter oggi doveva parlare di altro, iniziare con altro, raccontare quello che si muove invece di quello che già c’è. Poi davanti al mare ci siamo chiesti perché da secoli e secoli quest’acqua che si muove o sta ferma ci dà il potere pensare.
E allora ho dovuto guardare a riva e raccogliere cosa il mare mi restituiva: il bisogno di proteggermi.


Mentre Giulia Tramontano veniva ammazzata io probabilmente stavo bevendo un gin tonic. Mentre altre Giulia sono vicino a noi, noi non ce ne accorgiamo: che le donne siano uccise è normale. Ci dispiace, ci indigniamo il giusto, andiamo avanti.
Io allora non riesco più. Non riesco a commentare tra una scrivania e l’altra la notizia. Non riesco a dirti la mia davanti a un caffè mentre rispondi a una mail. Non riesco a dire che non me ne frega davvero un bel niente se non siete tutti così, pure se ti voglio bene. Non riesco a fare la conta. Non riesco a dire perché non è giusto chiamarlo omicidio. Non riesco a parlare di femminicidio come fosse un argomento di conversazione: questa è la terra che calpesto tutti i giorni, questo è un campo di battaglia dove il sangue che scorre è il nostro. Non il vostro. In questo campo senza squadre ed erba sintetica, io rivedo il percorso solcato prima di me dai passi delle altre. Delle donne della mia famiglia, delle donne che non conosco, di quelle che ho incrociato nei bagni di una discoteca, delle altre con cui mi sono capita senza parlare, delle mie amiche e delle mie sorelle.
Subire è un fatto di generazioni e tempo, l’abbiamo chiamato amore. Poi cura. Non lo è. Sono stanca di far finta, sono stanca di sentirvi parlare.
Sono stanca di raccogliere i giudizi di chi non sa e non vive le situazioni su cui sentenzia: la manipolazione è un fatto sottile, sa dove insinuarsi, muove le corde delle fragilità, attecchisce pure sui terreni più centrati perché c’è sempre una frana pronta a muoversi. Il contadino lo sa e prepara il terreno: si chiama spirale della violenza. Comincia con l’intimidazione, procede con l’isolamento, la svalorizzazione, la segregazione: non sono parole vuote di significato. Ma corrono esattamente nelle nostre strade. Si riconoscono quando non sei a tuo agio. Quando diventi tu l’oggetto di conversazione o giudizio. Quando dubiti di te per parole altrui. La violenza fisica è la punta di un iceberg complesso. Non possiamo sentirci sole. Abbiamo bisogno di stare insieme.
Serve una rete, serve la rabbia, serve una cultura nuova, serve svuotare di senso gli stereotipi, serve nel frattempo saper guardare. Tendere le mani invece che mettersele sugli occhi. Un dolore quotidiano che non si attenua perché lo sappiamo, lo sapevamo e lo sapremo. Aprire gli occhi a un tempo nuovo, non riesco più a sopportare. Il dolore di una è il dolore di tutte e attanaglia la pelle.
Parlate con le amiche vostre, parlate con le amiche delle amiche, parlate con le donne della vostra famiglia. Parlate con voi stesse. Costruiamo ponti indistruttibili affinché la condanna della violenza diventi sociale: non abbiamo bisogno di attenuanti. Un uomo che ammazza non è un caso isolato. Non è un pazzo malato. Sa che può farlo. Che il mondo sarà indulgente. Che ammazzare le donne rientra nel dominio del possibile. Lo scrive benissimo Virginie Despentes in Caro stronzo (Fandango), di cui oggi Daria Bignardi ha postato questo estratto precisissimo:
“Mi hanno fatto molte più prediche sulle droghe che sugli uomini”: se domani sarò io, appicciate tutt cos. Non riesco a parlare, ma voglio fare un casino.
📰 Rassegnami
Sopravvissute, la violenza narrata dalle donne
Un testo prezioso scoperto a inizio anno: Flaminia Saccà e Rosalba Belmonte sono docenti che ho incontrato nel mio percorso accademico e che in questo volume mettono a sistema il lavoro di ricerca svolto nell’ambito del progetto Step (“Stereotipo e Pregiudizio. Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media”). Leggerlo per capire come la violenza sia prima di tutto una questione di controllo: il mio capitolo preferito è quello dedicato gli stereotipi in ambito giuridico. Pure quando si cerca giustizia per chi ha subito violenza, si innescano pregiudizi che tendono a dover sottolineare la credibilità delle donne. Come se fosse sempre e comunque necessario.Le leggi sulla violenza contro le donne ci sono ma tutto è perfettibile
Dopo il Codice Rosso del 2019, in arrivo il Codice Rosso “rafforzato”, che ha destato più di qualche perplessità. Soprattutto perché, dicono alcuni esperti del settore, magistrati e operatrici dei centri, le priorità sono altre: mancano le risorse, manca la formazione, da rendere obbligatoria, per i magistrati, manca attenzione oltre alla fase delle indagini alla la fase del processo vero e proprio, spesso troppo lungo.
Uomini che uccidono le donne: al Paese serve un’opera di educazione profonda
E invece, purtroppo, quel che ci troviamo ancora ad insegnare è ad avere paura. Perché quel lavoro profondo sugli uomini, che elimini il desiderio di possesso e non di amore, di sopraffazione e non di cura, di assenza del limite, di riconoscimento di una violenza interiore che va curata, non lo abbiamo ancora nemmeno cominciato.
Come Tina Turner contribuì a diffondere consapevolezza sulla violenza domestica
La celebre cantante parlò pubblicamente degli abusi subiti da parte dell'ex marito Ike Turner, ispirando moltissime donne a fare lo stesso.
🎯 Nominare è fare esistere
Solo il 16% delle biografie presenti su Wikipedia riguarda le donne: una percentuale impari e incrementata dal lavoro di Wikidonne. In questo spazio ridiamo spazio: una bio per ogni numero. Storie per riscrivere la storia.
Storie ordinarie ed eccezionali si ritrovano sempre vicino a noi, a saper guardare: Cecilia Pellizzari è una giovane giornalista (ha scritto per Scomodo, DinamoPress, The Submarine e MicroMega, adesso sta iniziando una collaborazione volontaria con Bossy) che legge questa newsletter e con cui condividiamo interessi, resistenze e - ho scoperto - punti di vista: come me, scrive. Come me, si incazza quando “temi femministi” vengono trattati come “temi di resistenza” e dunque poco o mai retribuiti.
Come me, arriva a Roma per studiare: ci rimarrà? Non lo so. Ma da Milano, dove è nata nel 1999, è qui che arriva per studiare Filosofia. La incontro in una domenica romana e soleggiata, in occasione dell’evento “Editoria, femminile singolare” nato per raccogliere fondi a supporto di Lucha y Siesta *io infatti capisco di dover andare da Lucha (Tuscolana vibes), per poi scoprire che è da Scomodo che sarei dovuta arrivare (Manzoni vibes): una forza di volontà che solo chi conosce la geografia di Roma può comprendere*. Arrivo comunque, a La Redazione si sta sempre bene, la GenZ ha stile e parole.


Cecilia tiene il suo intervento e io faccio in tempo a dirle: raccontiamolo.
Le sue parole rintracciano diversi temi che mi stanno a cuore e che credo fermamente siano le coordinate della lotta:
rivendicare spazi e smettere di chiederli
farsi pagare per quello che si fa, senza confondere il lavoro non pagato con l’umiltà
costruire significati nuovi
ampliare la voci domandandosi sempre qual è il punto da cui si parte (dove sono? Chi sono? Quali i miei privilegi?).
“La mia esperienza a Scomodo (qui tutte le info sul progetto) nasce a febbraio del 2020 a Milano, dove sono nata e ho vissuto fino a due anni fa - racconta Cecilia Pellizzari - "Ho fatto giusto in tempo a partecipare alla prima riunione di presentazione del progetto, che la Lombardia è stata dichiarata zona rossa, e in poco tempo siamo entrati tutti in lockdown. Il mio primo impatto con il giornale, quindi, è stato totalmente da remoto. Non ho mai incontrato nessuno che scrivesse con me se non in queste enormi riunioni di organizzazione editoriale, in cui non conoscevo ancora nessuno”
In Scomodo, però, ha le idee chiare: “ho subito ho sentito la necessità di occuparmi di tematiche di genere. Nonostante non avessi mai scritto su un giornale, i temi che mi interessavano erano quelli. Le rivendicazioni femministe e trans-femministe sono sempre state quelle che mi hanno maggiormente infiammata. Al liceo ho fondato insieme alle mie cinque migliori amiche un collettivo che aveva come primo obiettivo quello di portare il maggior numero di studenti e studentesse in piazza l’8 marzo, ho partecipato attivamente al lavoro di NUDM Milano e a qualche campagna dei Giovani Democratici per la contraccezione gratuita e consapevole. Sfruttavo ogni occasione per portare avanti le istanze in cui credevo, e Scomodo in quel momento mi sembrava il luogo giusto per farlo”
Sfruttare le occasioni per creare spazio: “Dal primo momento Scomodo si rivela un buonissimo megafono: alle riunioni sono quasi sempre tutti entusiasti delle proposte che tematizzano l’oppressione di genere. Mi trovo a lavorare da subito con diverse redattrici che hanno i miei stessi interessi, e facciamo da subito rete. Tra queste ci sarà una delle mie migliori amiche, Francesca Cinone, con cui ancora oggi scrivo e che è ancora uno dei miei punti di riferimento per le discussioni che riguardano le tematiche di genere.
Appena mi trasferisco a Roma, il megafono aspaziale che era prima la redazione, assume finalmente un carattere materiale. Comincio ad andare alle riunioni del giornale nella redazione fisica a Manzoni, e tutto comincia ad essere più reale, anche i rapporti di potere all’interno dello spazio”.
A proposito di rapporti di potere, a dimostrazione di come certe radici siano radicate, anche nel progetto più virtuoso ci sono piani da rimettere in discussione:
Nonostante ai tempi, circa un anno fa, fosse stata costituita una segreteria incaricata di gestire la ricostruzione del progetto di Scomodo, a cui partecipavano retribuite quasi per la metà ragazze, alle riunioni di restituzione del lavoro di segreteria parlava sempre un ragazzo (Pietro Forti o Edoardo Bucci). Le sezioni erano divise in attualità, cultura e plus e ognuna di loro aveva due caporedattori: solo una di queste sei persone era una ragazza (Federica Tessari). Anche la narrativa era in mano a un caporedattore maschio (Alessio Zaccardini). Nasce poi una gestione un po’ più capillare dei social che viene data in mano a un altro ragazzo (Simone Martuscelli). Ma anche lo spazio fisico era coordinato da un ragazzo (Salvatore Pisciotta) e la contabilità della pure (Lorenzo Cirino).
La questione degli spazi è sempre una questione di potere ed il momento di ridiscutere anche il suo signicato: “Sono consapevole di essere figlia di un femminismo liberale che mi ha insegnato che le conquiste per il mio genere passano anche attraverso l’ottenimento di luoghi di protagonismo e di potere, e che forse in realtà dovremmo lavorare per una messa in discussione del potere in quanto tale, e non aspirare a ottenerlo. Però, nel pratico, questa posizione di minoranza ha delle conseguenze.
Il fatto che i caporedattori siano uomini disincentiva molto spesso le redattrici a proporre alcuni temi rispetto ad altri, fa capire loro che i ruoli all’interno della realtà per cui fanno volontariato sono da loro meno scalabili, polarizza molto spesso la discussione intorno alle voci maschili più forti.
Un giornale può occuparsi di tematiche di genere perché sul teorico la considera una battaglia da sostenere, ma non è detto che sia in grado di decostruirsi quando deve organizzare le dinamiche sociali all’interno, o che sappia gestire una situazione di molestie, o di abuso, o che sia in grado di creare un ambiente in cui figure di giovani donne possono emergere realmente. Quello che penso è che questo è un lavoro che Scomodo, nonostante alcune difficoltà, si sta impegnando a portare avanti.
E sul giornalismo, Pellizzari aggiunge:
Che il lavoro dei giornalisti e delle giornaliste sia un lavoro precario non è una novità, ma quello di cui si parla poco è il senso di colpa che viene instillato quando vuoi vendere qualcosa che scrivi, come se l’attivismo e il volontariato dovessero necessariamente andare a braccetto. Il lavoro della giornalista è un lavoro che ha bisogno di tempo per studiare l’argomento, fare un lavoro di ricerca e scrivere il pezzo. Sono ore che sono felice di spendere in questo modo ma che tolgono spazio ad altri lavori retribuiti, alla mia vita universitaria e a quella sociale, ed è giusto e doveroso pretendere che venga riconosciuto come un lavoro.
🌱 La parola
Cameratismo
Il cameratismo è la forma di omosocialità più diffusa tra i maschi eterocis, perché corrisponde esattamente alla fragilità con la quale hanno costruito il loro ruolo di genere.
Dice tutto Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, qui:
🍸 Coraggio liquido
C’è chi dice “salato”, io dico “irriverente”: ÌNDICO è l’ultima creatura fantastica dei Castelli Romani, scampata alla decimazione dei miti. È il nuovo vino bianco del progetto LIANE: affrontare la realtà con scaramanzia, fortuna e luce giusta.


❤️ L’amore è una playlist
Colazioni in balcone e questa è la mia libertà.
💫 Autodiagnosi e cura
Autodiagnosi: difendere la spensieratezza
Cura: l’amore parlato