Volevi solo soldi
Nello Statuto delle lavoratrici che vorrei, il gender pay gap si trasforma in birrette e gin tonic pagati a vita: cosa abbiamo (poco) e cosa ci manca (tanto).
Il mio primo lavoro “salariato” è stato in un villaggio turistico in Cilento dove, a 15 anni o poco più, ho fatto l’animatrice. Fiorello, scansate. L’attitude da clown - non che la professione lo sia, ma un po’ pagliaccia ti ci devi sentire - è rimasta più o meno la stessa. La verve romantica, pure: tra un gioco aperitivo e l’altro consegnavo bigliettini di amore clandestini per organizzare incontri altrettanto segreti. Sempre degli altri, mai i miei. Perché io innamorata lo ero già. E ancora di più lo ero di quella libertà per cui, da giugno a settembre, potevo non vedere il mio primo fidanzato. Quello per cui ti sembra tutto possibile e tutto per sempre. Potevo non vederlo, pur sentendone la mancanza tutti i giorni, perché forte come l’amore era il bisogno di guardare tutto il resto: il mondo “fuori”, da sola, da quasi maggiorenne, lontana per la prima volta da casa.
Il primo amore e il primo stipendio: entrambi una rotta che disegnano, o per lo meno mostrano, quella che può essere “la strada”. Io, con quei soldi, ricordo di aver comprato un paio di Nike. Con quell’amore, di aver capito e deciso. Dieci anni dopo avrei indossato sneaker solo in pre mestruo e avrei capito che non si può capire sempre tutto. Se la vita è imprevedibile, l’amore di più. La libertà, invece, quella è una scelta da difendere proprio perché non è garantita a tutte. L’indipendenza economica è la libertà di poter scegliere. A questo serve il lavoro, non solo a definire una parte di chi siamo e che varia in base a quanto decidiamo che il lavoro possa definirci.
Eppure, ancora oggi, per molte donne risulta difficile o volgare parlare di soldi: si continua a consigliare alle donne di sposare un uomo ricco e in molte famiglie tuttora non si insegna alle ragazze a gestire il denaro, persuadendole che farsi procurare da qualcun altro la sicurezza materiale sia un traguardo di vita.
Vi direi ironicamente che non vedo errori e che, in effetti, cercare il sostentamento economico da terze parti mentre ci facciamo la skincare è quello che ci meriteremmo anche solo per l’accollo di vivere in un mondo che non ci contempla e in cui dobbiamo ancora sgomitare. Ma, tenendo a bada la parte anticapitalista che in me chiede rivolta (desiderando di trasformare il gender pay gap in gin tonic pagati), dirò che guadagnarsi il denaro da sole - e saperlo fare - è la forma di libertà più potente e pragmatica che conosca. Per dirne una: se dipendi economicamente da un uomo violento, non puoi andartene.
Secondo il report “Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica” pubblicato da WeWorld, il 49% delle donne intervistate dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita, percentuale che sale al 67% tra le donne divorziate o separate; più di 1 donna separata o divorziata su 4 (28%) dichiara di aver subito decisioni finanziarie prese dal partner senza essere stata consultata prima. Eppure, la violenza economica è considerata “molto grave” solo dal 59% dei cittadini/e.
Se i soldi non sono tuoi e solo tuoi, anche i tuoi progetti non lo saranno altrettanto: il rischio che vuoi correre - e che correresti - diventa un vincolo. E i vincoli opprimono prima i sogni, poi chi sei. Già all’inizio del XX secolo Virginia Woolf aveva centrato la questione dei soldi nel discorso sull’emancipazione femminile, pronunciando la celebre frase secondo cui “Una ragazza dovrebbe avere una stanza tutta per sé e una rendita di 500 sterline l’anno”.
Cosa è cambiato da allora? Sono i dati dell'indagine realizzata da Global Thinking Foundation e dalla testata giornalistica Roba da Donne, solo il 58% delle donne in Italia ha un conto corrente intestato personalmente, il 12,9% ne ha solo uno intestato con il partner (11,6%) o altro familiare, e il 4,8 non ne ha uno, neppure cointestato.
Il femminismo oggi passa (anche) dal denaro. Lo spiega bene in questa intervista Azzurra Rinaldi, economista femminista, docente di Economia Politica all'Unitelma Sapienza di Roma, scrittrice e autrice della newsletter La Prof: “il femminismo in un'economia capitalistica è molto legato al denaro. La divisione dei ruoli è soprattutto una divisione dei lavori: tra questi c'è anche quello di cura, che si svolge in casa ma che non viene retribuito, finendo per mettere la donna ai margini della famiglia e della società”.
La divisione dei compiti e del lavoro si basa sul genere: alle donne viene attribuita una tendenza naturale alla cura, invece gli uomini escono di casa, guadagnano i loro soldi e soprattutto li gestiscono. “Tutto questo ha a che fare con il femminismo perché chi non ha denaro o chi non lo gestisce è una persona meno libera, anche nel portare la propria voce all’interno della coppia - afferma Rinaldi, che continua:
Molte ricerche ci dimostrano che chi guadagna nella coppia ha il cosiddetto bargaining power, ossia il potere contrattuale, il che si traduce in scelte diverse e magari non condivise sui figli, sulle scuole che frequentano, per la salute. I soldi danno potere: ecco perché il femminismo passa dal denaro”.
Parlare di soldi serve ad abbattere il tabù a riguardo: le signore parlano di soldi è una convinzione relativamente nuova perché, invece, per un uomo il reddito ha sempre rappresentato una dimostrazione del suo potere.
Per le donne il denaro è sempre arrivato “nel nome di un uomo”: padre, marito, fratello o figlio. Anche nella cultura dell’antica Roma, che pure riconosceva alla donna una notevole autonomia amministrativa nei confronti del denaro di casa, si rileva una cerimonia matrimoniale particolarmente emblematica: la manus iniectio. Il padre poneva la propria mano sul capo della figlia, prendeva poi la mano del futuro genero e la sostituiva alla propria: con questo sanciva non solo l’importanza di una “protezione” maschile, ma anche di una sottomissione economica.
In superficie molte cose sono cambiate da allora, ma l’inconscio personale e collettivo che determina i nostri comportamenti sociali ricalca lo stesso percorso: il rapporto tra donne e denaro resta ancora circondato da un tabù in cui abitano inconsce e profonde paure.
E quindi, come invertire la rotta? La soluzione non è unica, né è semplice: per far sì che le donne i soldi li facciano, oltre che il cambiamento culturale, serve rivoluzionare il mondo del lavoro. Ma intanto, care lavoratrici che leggete: chiedete un aumento. Ve lo meritate anche quando pensate che invece no. Incoraggiate le colleghe a farlo. Rinaldi, nel suo ultimo libro “Come chiedere l’aumento” - in uscita il 14 maggio - vi spiega come farlo. Donne che chiedono sono donne che poi ottengono. Donne che si parlano tra loro sono donne che possono riconoscersi e fare squadra.
Anche lo Statuto dei Lavoratori - ovvero la Legge 20 maggio 1970 n. 300 che reca “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” - è declinato al maschile. Ci ha pensato la giornalista Irene Soave a “riscriverlo” con il suo “Lo statuto delle lavoratrici: Come ti senti, a cosa hai diritto, dove possiamo cambiare”: nella sua inchiesta – ricca di dati e accesa dalla passione di ciò che vede e sente – Soave fotografa la collettiva disaffezione al lavoro individuandone le radici, i sintomi e le conseguenze. Gli interrogativi da cui parte - e che ha spiegato a Cuter e Peron nella loro Senza Rossetto - sono precisi:
Abbiamo davvero tutti il burnout? Il lavoro flessibile davvero ci rende liberi? Davvero un compito va svolto bene pure se è brutto? Davvero cambiare vita è una soluzione?
A queste domande si può rispondere ponendosele, entrando in conflitto: lo stesso che è necessario per difendersi dall’ingordigia e dalla prepotenza di chi lo comanda e ritiene di possederlo. “Nel titolo – afferma Soave – ho scritto lavoratrici, ma non intendo solo femmine: le lavoratrici, in questo libro, sono tutti quelli che soffrono le condizioni a cui lavorano. Pagati poco, o reperibili sempre, o precari, o vessati, o a rischio della salute o della vita. O tutte le cose insieme”.
All’indomani del primo maggio, festa del lavoro, riconoscersi in una collettività è il primo passo per difendersi. Ma dobbiamo iniziare a parlarci. E a non aver paura di chiedere. L’emozione dei primi soldi guadagnati scrivendo, lavorare trovando il senso: diritti che ci spettano perché, sui doveri, non ci siamo risparmiate mai.
*A proposito del saper chiedere, se vuoi sostenere LRSB - un progetto editoriale indipendente per femminismi no budget - qui puoi farlo offrendomi appunto un gin tonic.
📰 Rassegnami
I pro vita vogliono entrare anche nei centri antiviolenza
In alcune regioni associazioni e gruppi cattolici con posizioni radicali stanno entrando nella gestione dei centri antiviolenza, oltre che nei consultori, suscitando le critiche delle femministe. Lo racconta Annalisa Camilli.
Piemonte, il laboratorio anti abortista
La regione Piemonte, guidata da Alberto Cirio (Forza Italia), vieta la distribuzione della pillola Ru486 per l’aborto farmacologico (e non chirurgico) nei consultori, in contraddizione con le linee guida nazionali. È la stessa regione in cui, all’ospedale Sant’Anna di Torino, è quasi pronta la “stanza dell’ascolto”, dove le associazioni pro-vita potranno avvicinare le donne che vogliono abortire per provare a dissuaderle. Associazioni che, in Piemonte, hanno ricevuto negli ultimi tre anni circa due milioni di euro di fondi pubblici. Inchiesta di Sara Giudice.
Festa del lavoro, indagine Legacoop Ipsos: quattro giovani su dieci temono di venire sfruttati
Per gli under 35 il lavoro è in primo luogo una fonte di reddito (41%, con una punta del 49% per gli appartenenti al ceto medio), un diritto (39% medio, ma 45% nel ceto medio e 47% al Mezzogiorno) e un modo per affermare la propria indipendenza (38%, 42% nel ceto medio e 43% nel Mezzogiorno).
Perché la sicurezza delle donne non può passare da una chat e dallo “scrivi quando arrivi”
Più si moltiplicano i gruppi di auto-aiuto per permettere alle donne di sentirsi più sicure in città, più lo Stato certifica il suo fallimento. Perché le donne, quando escono, devono sentirsi libere, non coraggiose.
Gloria! Il film che racconta i talenti femminili della musica
Sappiamo che la musica faceva parte dell’educazione delle fanciulle nelle famiglie aristocratiche o ricche. E se tra queste giovani donne, che passavano anni a dedicarsi a suonare e cantare, vi fossero state oltre che delle ottime esecutrici, anche delle geniali compositrici? Questo no, non lo sapremo mai. Ma possiamo immaginare che sì, anche solo per la legge dei grandi numeri, il talento musicale abbia albergato negli animi femminili come in quelli maschili, la differenza è che la Storia non ci ha consegnato nessun componimento immortale, ma solo rassegnate supposizioni e amare ipotesi.
🎯 Nominare è fare esistere
Solo il 16% delle biografie presenti su Wikipedia riguarda le donne: una percentuale impari e incrementata dal lavoro di Wikidonne. In questo spazio ridiamo spazio: una bio per ogni numero. Storie per riscrivere la storia.
Luce Irigaray
Buon compleanno a Luce Irigaray, 94 anni lo scorso 3 maggio: filosofa e psicoanalista belga naturalizzata francese, Irigaray rappresenta un riferimento centrale del pensiero femminista o, meglio, del femminismo come pensiero edificato attraverso una serie di arcate concettuali: l’alterità, il maschile, la repressione, il corpo, la politica.
Pur nella molteplicità, il pensiero di Irigaray ruota attorno a un unico elemento: il concetto di differenza in prospettiva sessuale.
L’aspetto chiave della sua analisi risiede nel rifiuto di una concezione della differenza sessuale intesa come dato biologico o stereotipo culturale. La tesi, decisiva, è che la differenza sia invece una questione testuale. La matrice dei rapporti tra i sessi trae alimento da una diversità di potenziale corporeo che si definisce come predominio maschile.
Quest’ultimo, appropriandosi del mondo e invalidando ciò che è diverso da sé, concepisce e rimuove il femminile come uno spazio imprevisto da riempire e occupare in quanto eccezionale rispetto all’ordine del discorso.
Il pensiero della differenza di Irigaray ha smascherato il meccanismo coercitivo e repressivo dell’elemento maschile che ha conformato il nostro tempo.
La diversità ha alle spalle un portato di storia, dolore e lotta che va riscoperto
Luce Irigaray indica le logiche del femminicidio originario tramite la metafora dello specchio, identificandolo come oggetto di legittimazione per la struttura maschile del discorso e distanziandosi polemicamente da Jacques Lacan.
Nella lettura lacaniana, il sé è in origine un’immagine separata che si costituisce a partire da un riflesso e, così, l’"essere" non può fare a meno di concepirsi come "esser visto". L’identità è connessa anzitutto con la forma esteriore maschile e non con l’evento interiore femminile: il gesto identitario consiste nello sviluppo della dimostrazione razionale, finalizzata a convincere il mondo che l’identità riflessa nello specchio è quella di cui dobbiamo rispondere.
Nel mondo come lotta dialettica, la giustificazione avviene attraverso il "fal-logo-centrismo", che si contrappone allo "speculum", il femminile come opposto simmetrico dell’uomo, presenza autosufficiente e spazio del soffio vitale.
Il portato dell’opera di decostruzione di Luce Irigaray non solo colpisce il presunto universale maschile e il primato della ragione, ma usa il femminismo per affermare la possibilità di un modo di pensare nuovo, non logocentrico, nella creazione di una nuova poetica.
Qui approfondimento completo.
🌱 La parola
Aborto farmacologico (RU486)
Il mifepristone, o RU486, è un antagonista del progesterone, il principale ormone deputato allo sviluppo e al mantenimento della gravidanza. Sintetizzato nei laboratori Russell Uclaf (da cui la sigla RU), è utilizzato sin dal 1989 per l’aborto medico.
Il metodo farmacologico è sicuro ed efficace, e può essere utilizzato, oltre che per l’interruzione volontaria, anche nel trattamento di varie condizioni cliniche quali l’aborto spontaneo, l’aborto incompleto, la morte fetale intrauterina.
La metodica si basa sull’utilizzo di due farmaci, il mifepristone, o RU486, e una prostaglandina; tra queste, il misoprostolo è il farmaco più diffuso.
Pur essendo definita dall’Oms una procedura sicura e raccomandata per le interruzioni di gravidanza, in Italia l’aborto farmacologico è in ritardo, perché la pillola abortiva è arrivata solo nel 2009. Certo è che negli anni sempre più persone l’hanno preferita al metodo chirurgico, passando dallo 0,7% nel 2010, al 20,8% nel 2018, fino al 31,9% nel 2020.
Numeri però ben lontani dagli altri Paesi europei: in Francia ad esempio, dove la RU486 è stata introdotta già nel 1988, gli aborti farmacologici sono oltre il 70% del totale. Peggiora la situazione il fatto che in Italia la deospedalizzazione dell’aborto farmacologico sia prevista solo in alcune Regioni. Spiccano poche avanguardie, come la Regione Lazio che ha introdotto nel regime ambulatoriale la procedura at home secondo le linee guida internazionali, o come l’Emilia-Romagna che ha iniziato a distribuire la Ru486 nei consultori.
Le grandi differenze regionali in termini di regole, accesso, applicazione determinano una disomogeneità che va ad alimentare le difficoltà, per le donne che vogliono accedere all’Ivg farmacologica, di reperire informazioni sui metodi e le tempistiche.
🍸 Coraggio liquido
Dove il mare incontra il cielo: siamo in Costa Smeralda, a pochi passi da Porto Cervo. Qui nasce Rena 41 Distilled Gin che, sempre qui, ha la sua casa: CASA RENA 41, un parco di 4 ettari che aspira a proporre un approccio ecosostenibile, rimettendo al centro la natura anche nella produzione del distillato. Le botaniche vengono distillate individualmente utilizzando tecniche come infusione lenta e distillazione sotto vuoto.
Processi slow per la vita che chiede slowness.
❤️ L’amore è una playlist
Ci serve:
💫 Autodiagnosi e cura
Autodiagnosi: non essere indispensabili e fare in modo che sia così. Che leggerezza.
Cura: sotto cassa, sotto casa, sotto la luna, sotto lo stesso cielo.
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