Quel fare silenzioso che fa rumore
Sì, "C'è ancora domani" è un film politico: la politica delle donne.
Quel fare silenzioso che fa rumore. Così sottotitolavo uno dei primissimi numeri di questa newsletter, parlando delle donne della mia famiglia. Perché è sempre da lì che si parte. Dalle storie che ci appartengono, dalle strade che riconosciamo nostre, dall’abitare delle donne che sanno fare casa.
Il fare silenzioso è lo stesso filo rosso che ho ritrovato nelle poltrone - pure rosse - di un cinema vicino, con la pioggia fuori che batteva sulla tristezze e una coca cola zero per celebrare l’esordio di Paola Cortellesi alla regia:
C’è ancora domani è un film che merita i riconoscimenti che sta avendo e a cui, soprattutto, si deve riconoscenza perché, a sua volta, ha riconosciuto.
Sullo schermo prendono forma e voce le storie delle donne taciute, quelle che hanno rivendicato sopportando. Quelle che hanno apparentemente agito nello sfondo per sovvertire gli esiti della ribalta. Quelle che, insieme alle più emancipate e consapevoli - che diventeranno le nostre madri costituenti - ci hanno dato il voto.
Perché il voto ce lo ha dato il coraggio di quelle donne. Ma pure la sopportazione delle altre. Ce lo ha dato la battaglia pubblica. Ma pure le micro lotte domestiche. Il voto ce lo hanno dato tutte quelle donne che - streghe e non - si sono ascoltate e hanno fatto rete senza la certezza di cambiare il loro mondo. Ma con l’obiettivo di migliorare quello delle altre: figlie, sorelle, amiche, cugine.
“Quando nasci donna appartieni già a un movimento” ha commentato la regista Cortellesi: è nel privato che si costruisce il pubblico.
Esplorare il mondo, fuori dal domestico, è stata una conquista faticosa e dolorosa che si poggia sulla spalle delle donne venute prima di noi. Prima del diritto di voto, prima del diritto all’aborto, prima di tutto: il primo esercizio di autodeterminazione è stato cambiare le sorti delle donne - decise dagli uomini - con quello che si aveva a disposizione. Distribuire piccoli atti di eversione nella vita quotidiana: lo hanno fatto tutte. Le femministe ante litteram che probabilmente oggi non capiamo ma a cui più o meno tutto dobbiamo.
Il film di Cortellesi indica che sì, c’è ancora domani: nella tensione verso il futuro, c’è un presente di riconoscimento che va ascoltato. La storia della protagonista Delia parla alle donne di oggi partendo da quelle di “ieri”: “guardare alcune scene del film mi ha fatto ripensare a tutte le cene di Natale a casa mia. Dove le donne sono sempre in piedi a sparecchiare e gli uomini seduti a tavola” mi racconta Lucia.
“La vita delle donne oggi non è troppo diversa - aggiunge Federica - il motivo per cui la protagonista non piò staccarsi dal marito è economico e sociale: queste stesse motivazioni sono tutt’ora presenti. Il lavoro di cura continua ad essere carico quasi esclusivo delle donne, senza retribuzione”.
I temi ricorrenti, nel racconto di Cortellesi, sono molteplici e dalle infinite letture: c’è la complicità, l’amicizia (Cortellesi e Fanelli meravigliose), la violenza, l’autodeterminazione economica, il mostruoso materno, la conflittualità, la legge dei padri, le sfumature coniugali, il male gaze.
Ma, più di tutto, ci sono le nostre storie. E un “appello”, forte fortissimo, al riconoscimento della responsabilità maschile: C’è ancora domani è un film doloroso per le donne - perché si racconta una storia che conoscono direttamente o indirettamente - e per gli uomini, costretti a considerare e a fare i conti con quel modello maschile che storicamente è stato loro imposto e collegato al concetto stesso di “virilità”. Distaccarsene è una battaglia che va non solo cominciata, ma curata. Il movimento femminista lo ha fatto, lo sta facendo: ed è per questo che oggi, più di ieri, riguarda anche gli uomini. Un aspetto che emerge bene dal racconto di Carlo, che mi scrive:
Fin dai primi minuti del film ho provato un forte senso di disagio. Disagio nella consapevolezza di appartenere ad una classe figlia di quel retaggio che, in un modo o nell’altro, non è riuscita ancora ad applicare a pieno un vero distacco dallo stesso.
Disagio nel vedere rappresentato su pellicola quello che è stato un mondo sentito solo in qualche vecchio racconto di una nonna paterna, madre di 7 figli battezzati di nascosto per non contravvenire alle regole di un marito anarchico e violento, rassegnata ad una vita di abusi fisici e abbattuta da una vita di silenzi e che trovava comunque il tempo di andare in giro per il quartiere per punture, massaggi , vendere il ghiaccio e procurarsi il sacco della farina per l’inverno, perché guai se, nonostante tutto, a casa mancasse qualcosa. Una generazione in cui l’abuso era normalizzato ad ogni livello, in cui l’unico sfogo che la donna aveva era di ritagliarsi dei momenti in cui diventare abusante a sua volta , ma con altre donne , diventando così vittima due volte.
Il disagio serve, è vitale per riconoscere: “Non sono riuscito a sorridere neanche lì dove il regista ha deciso di calcare la mano: i balli , i canti e i lividi che scomparivano mi hanno comunicato più violenza di quella che forse una scena esplicita avrebbe potuto fare - continua Carlo - Ansia e frustrazione mi hanno accompagnato nella visione di questo film. E la consapevolezza di aver vissuto quei silenzi, quell’amore per i figli , quella pressione psicologica atta solo ad atterrire il valore di una persona, mi ha portato in diversi momenti ad aver voglia di chiudere occhi e orecchie. Ma dovevo vederlo. Lascio la sala con una sensazione generale di disillusione anche politica. Rabbia e amarezza per uno stato che ha deluso le aspettative di una classe maggioritaria e ancor di più delle generazioni che le son susseguite. Conscio del fatto che questa normalizzazione dell’abuso e quest’aria di tolleranza collettiva è ancora così radicata in ognuno di noi, credo ci vorrà ancora più di una generazione affinché si possa mettere un punto. Il film mi è piaciuto? Sì molto. Lo rivedrei ? Non credo”.
Serve stare male. Serve riconoscere. Serve fare i conti.
Come scrive Letizia Giangualano su Alley Oop, “Si rimane per tutto il film in equilibrio tra il riso e il pianto, tra passato e presente, perchè la resistenza di Delia ci appartiene come eredità generazionale ma anche come società civile: prima di ogni violenza, Ivano chiude le imposte di casa, come se i rumori non raccontassero ai vicini chiaramente ciò che comunque si vede poi sul corpo livido di Delia”
E questo non è un dettaglio del passato, è un faro puntato sull’amaro presente in cui dal 1 gennaio al 1 ottobre sono 100 le donne vittime di femminicidio, i due terzi delle quali è stata uccisa in ambito familiare/affettivo; di queste, 47 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner, e i dati diventano vecchi da un giorno all’altro. Si torna a ripetere: “C’è ancora domani” non è un film storico. È un film che parla anche del nostro presente, e di quanto cammino c’è ancora da fare per Delia, come per sua figlia.
📰 Rassegnami
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bell hooks
Parlare di bell hooks mi fa sentire scomoda e mi rimette in pace, questo è un estratto del più ampio pezzo che ho scritto qui.
Gloria Jean Watkins, questo era il nome di bell hooks, nasce nel 1952 nel Kentucky, in particolare nella cittadina Hopkinsville dove vigeva la segregazione razziale, mentre sua madre lavorava come domestica per una famiglia bianca.
“Non sarei qui a scrivere” disse la scrittrice a Maria Nadotti nel 1996, parlando di “Elogio del margine”, “se mia madre, Rosa Bell, figlia di Sarah Oldhan, nipote di Bell Hooks, non avesse creato un focolare domestico come luogo di resistenza e lotta per la libertà all’interno delle società suprematiste bianche, nonostante le contraddizioni della povertà e del sessismo”.
hooks studia alla Stanford University, dedicando la sua tesi all’opera di Toni Morrison. A soli 24 anni scrive un libro decisivo che ha cambiato tutto, per lei come per gli studi di genere: Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism, pubblicato nel 1981. Il titolo riprende la stessa domanda che Sojourner Truth, attivista antischiavista, pose nel 1851 a un’assemblea di donne: “Non sono forse anch’io un essere umano?”.
Con il suo primo saggio hooks invitava ad interessarsi una volta per tutte anche alla condizione delle donne perché, fino ad allora, se un afroamericano veniva socialmente considerato un intellettuale si trattava sempre di un uomo. Raccontando e testimoniando come le donne nere dal diciassettesimo secolo ad oggi siano state oppresse tanto dagli uomini (bianchi e non) quanto dalle donne bianche della classe media, hooks concepiva la lotta femminista come lotta trasversale e contemporanea contro razzismo e sessismo, riconoscendo i due fenomeni come intrecciati.
Razzismo e sessismo, quindi, sono considerati da hooks come problemi sistemici che solo un femminismo politico può combattere: “Non sono assolutamente interessata a un femminismo ridotto a stile di vita. Quel che mi interessa è una politica femminista, la definizione di programmi femministi per la nazione e lo stato, la trasformazione culturale” scrive hooks, che continua:
Credo sia importante tenere bene in mente che il femminismo è politica.
“Per scegliere la politica femminista bisogna aver fatto un’esperienza di conversione mentale, perché tutti noi siamo stati condizionati a essere sessisti. Chi ha una visione ampia e articolata del capitalismo sa bene che il problema è il sessismo, non gli uomini”.
🌱 La parola
Male gaze
Come scrive Teresa Cinque:
Il male gaze è quello sguardo maschile sulle donne che le identifica come oggetti sessuali. È il tipo di sguardo che troviamo nel cinema, in tv e nelle pubblicità. È la ragione per cui nel cinema, in tv e nelle pubblicità le donne sono spesso nude, seminude, provocanti, belle, perfette.
Il male gaze è quell’ingrediente che rende una pellicola, una serie o un programma televisivo più pruriginoso, più invitante, più seducente perché introduce, anche se il contesto non lo richiede affatto (vedi la pubblicità di un’automobile o un film d’azione), una gratificazione, una solleticazione del desiderio. C’è un particolare però, e cioè questa gratificazione e questo desiderio riguardano solo i maschi. In particolare i maschi etero.
Le donne (eterosessuali) non trovano nessun piacere in questa riproposizione in tutte le salse di donne bellissime e invitanti. In compenso, per loro, questo male gaze introduce un problemino, che è quello del continuo rapportarsi, confrontarsi e domandarsi se e quanto possono fare per avvicinarsi il più possibile ai modelli costantemente riproposti.
🍸 Coraggio liquido
Carattere ambientalista e filosofia selvatica: Gino gin è prodotto con l’intento di essere la “mare e monti” liquida del tratto fra Riviera Ligure e Alpi Marittime. Un approccio radicato al territorio distingue Origine Green Spirits, il laboratorio di produzione dell’antico borgo di Cengio Alto arroccato sulle alture, a metà strada fra il porto marittimo di Savona e le Langhe. Attento al green e con ogni certificazione biologica, Gino è la crasi fra modernità e spirito artigiano.
❤️ L’amore è una playlist
Sì, c’è pure questo nel film di Cortellesi.
💫 Autodiagnosi e cura
Autodiagnosi: ascoltare bene lo scalpitare delle cose, apre la strada.
Cura: essere il buon proposito di una persona, un pranzo al sole, ridere degli stessi disagi, dare nuove storie ai posti.
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